La proposta del sito "Chiesa di tutti, Chiesa dei poveri" di una lettera da indirizzare agli Ebrei della Diaspora è stata firmata da molti, mentre qualcuno ha deciso di non farlo perché contrario all’idea, affacciata nella lettera, di un solo Stato democratico e pluralista in tutta la Palestina per Israeliani e Palestinesi insieme, invece della “soluzione a due Stati” ormai impossibile e respinta anche da autorevoli personalità ebraiche e palestinesi come Ilan Pappé e Edward Said.
La critica sostiene che è utopico e irrealistico che i due popoli nemici possano vivere in un unico Stato, e che la soluzione di uno Stato palestinese, sia la più avanzata, oltre che sostenuta dalla comunità internazionale, Stati Uniti in primis.
Si tratta in effetti di un significativo cambio di prospettiva, che è bene illustrare e chiarire. Anzitutto uno Stato palestinese ormai ristretto in quanto resta dei Territori occupati nel 1967 (poco più del 30 per cento della Palestina storica), non potrebbe accogliere i profughi che sono fuori della Palestina. Inoltre anche lo Stato palestinese dovrebbe accogliere insieme Israeliani e Palestinesi, perché ci sono 700.000 Ebrei ormai stabilmente insediati in quella che essi chiamano Giudea e Samaria, su cui Israele manterrebbe comunque un controllo, costringendo i Palestinesi, con una indipendenza solo apparente, a vivere tra checkpoints e fili spinati, come accade ora, cioè sostanzialmente in bantustan e forme di apartheid.
Se poi si trattasse di un vero Stato palestinese con facoltà di armarsi, di avere un esercito e una sovranità con tanto di “ius ad bellum”, come si concepisce oggi lo Stato moderno, la probabilità di una guerra tra l’adiacente Stato ebraico e lo Stato palestinese sarebbe altissima, e massima l’insicurezza, come è dimostrato anche dai rapporti oggi esistenti tra Israele e i suoi vicini, Libano, Siria o Iran che siano.
Israele peraltro ha sempre escluso l’ipotesi di uno Stato palestinese, fin da quando i suoi fondatori sionisti, prevedendo l’opposizione araba, teorizzavano il “muro di ferro” su cui costruire lo Stato ebraico. Poi, per quasi settant’anni, l’ipotesi di uno Stato palestinese è stata fieramente avversata da tutti i governi israeliani, con la sola eccezione degli accordi di Oslo, negoziati da Rabin, che infatti è stato ucciso, certo da un israeliano estremista, ma che di certo non è rimpianto in Israele. Occorre aggiungere quanto è stato dichiarato in una intervista al “Fatto quotidiano” da Daniel Levy, uno dei negoziatori di Oslo, divenuto in seguito un oppositore delle politiche israeliane, secondo il quale “è difficile non pensare che per Israele Oslo sia stato uno stratagemma per mutare le condizioni dell’occupazione a proprio favore, trasferire un po’ di costi alla comunità internazionale, concedere formalmente solo quello che non si ha intenzione di concedere realmente”.
In positivo si può dire che la costruzione di un solo Stato, democratico e pluralista, per Ebrei e Palestinesi, dovrebbe passare attraverso un profondo rinnovamento della forma di Stato quale è oggi concepito, in una interazione molto più avanzata con la comunità mondiale, in una prospettiva che vale anche per noi.
Riprendendo illustri tradizioni che sono state abbandonate in Occidente, bisogna pensare al superamento dello Stato come è ora, per arrivare a concepire e a realizzare non Stati coincidenti con un territorio e trincerati nei propri confini e dietro porti chiusi, ma diversi ordinamenti giuridici anche insistenti nello stesso territorio e integrati in un ordinamento più vasto che dovrà giungere ad abbracciare tutta la Terra, in una gerarchia delle fonti di cui l’Unione Europea rappresenta un esempio embrionale, e comunque nella regola di un costituzionalismo mondiale a partire dallo Statuto, dalle Convenzioni e dalle istituzioni di garanzia dell’ONU.
Si tratta di pensare in grande, di rifare il mondo, cosa certo difficile, ma pensare in piccolo, cioè accettare lo stato delle cose esistente, vuol dire lasciare che diluvi in città, esondino i fiumi, si abbassino le acque del mare, avanzino i deserti, si estinguano le specie e aspettarsi che l’Intelligenza Artificiale gestisca una guerra mondiale dopo la quale, come diceva Krusciov, i vivi, se ancora ce ne saranno, invidieranno i morti.
(Raniero La Valle)