Anni fa assistei a una conferenza di Telmo Pievani, filosofo della biologia. Mi colpì quando disse che l’essere umano è fisiologicamente programmato a riconoscere il “diverso da sé” e a temerlo, almeno per una frazione di secondo: in altre parole, tendiamo istintivamente alla xenofobia. La responsabilità è dell’amigdala, una parte del lobo temporale del cervello che gestisce le emozioni e anticipa le reazioni della corteccia cerebrale.
Per esempio, quando vediamo una persona con una qualche differenza visibile (la pelle nera, un corpo dalle dimensioni inconsuete, un abbigliamento stravagante), l’amigdala ci mette in allerta prima che il nervo ottico abbia mandato il suo impulso alla neurocorteccia. Dopodiché, quest’ultima registra quanto sta accadendo e ci fa superare l’istintiva reazione di ripulsa.
Il funzionamento dell’amigdala è una motivazione per relativizzare l’idea di per sé ingenua del “gli esseri umani sono tutti uguali”: la nostra biologia ci porta inevitabilmente a notare le differenze – e, in prima battuta, a vederle come possibile fonte di pericolo. Il concetto di uguaglianza è frutto della mediazione che viene dopo, del “pensiero lento”, come direbbe Daniel Kahneman. Il punto è che questo passo richiede uno sforzo cosciente: una piccola, ma bella fatica che è parte del nostro essere animali sociali. Insomma, l’uguaglianza non è, ma va costruita.
Oggi si ragiona su questo sforzo cosciente chiamandolo “inclusione”: un concetto che però a sua volta non è sufficiente, poiché ...
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