I laici: Ancora non adeguatamente valorizzati

È opinione diffusa che, a quasi sessant'anni dall'inizio del Vaticano II, non solo i laici non siano adeguatamente valorizzati, ma che abbia progressivamente ripreso fiato una clericalizzazione crescente, a molti livelli. Con esiti negativi anche per gli stessi presbiteri, affaticati o esauriti per dover gestire in toto o quasi la vita parrocchiale. Non sarà facile uscirne, purtroppo.


Allargando l'obiettivo, del resto, la stessa dimensione della laicità nel suo complesso — per la cultura europea — non è un dogma innato, ma piuttosto l'esito di una storia accidentata. Se la sfida per i cattolici dopo il Concilio è la ricerca di articolare la tensione tra verità e alterità nel senso della comunione, dell'ascolto e dell'incontro, e non più dell'esclusione, dell'arroganza e dell'autosufficienza, permane tuttavia in noi, sottotraccia, la tentazione di continuare a ragionare come maggioranza. E, quindi, di esercitare pressioni per essere riconosciuti nel ruolo di reggenti in una società in cui sono tramontate le ideologie messianiche, i Grandi racconti. Una tentazione sempre viva, declinata nell'ultimo ventennio, in Italia, nel senso di una religione civile. Con le ambiguità del caso. Intanto, l'atlante delle fedi sotto il nostro cielo si va arricchendo: stiamo rischiando di non riuscire a riconoscere questo kairòs, l'esperienza del pluralismo delle fedi, civile e religioso a un tempo; di non apprezzarlo e non coglierlo nella sua reale portata.
È questa la sfida che ci sta davanti: per vincerla, molto dipenderà dall'evoluzione della nostra coscienza europea. Quanto più gli italiani si sentiranno europei, tanto più si scopriranno protestanti e ortodossi, ebrei e musulmani. Da qui a maturare una nuova consapevolezza del valore di un ampio pluralismo culturale e religioso il passo potrebbe rivelarsi relativamente breve. Ma parecchio dipenderà anche dalle comunità di fede: sebbene per parecchie di esse, peraltro, suonino forti le sirene dei fondamentalismi odi spinte radicali difficilmente compatibili con principi di laicità e di pluralismo. Occorreranno tempo, pazienza, investimenti sull'educazione all'interculturalità, capacità di essere empatici verso l'altro. Sì, stiamo attraversando una stagione in cui cassandre più o meno interessate prevedono la fine dell'Occidente, della sua cultura e dei suoi valori, ormai sopraffatti dalle spinte dell'immigrazione, della multiculturalità, del relativismo, del terrorismo jihadista.
Un panorama cupo su un piano inclinato, in cui non resterebbe che indossare l'elmetto e combattere... Ma è, davvero, questo il destino inevitabile dell'Occidente? La sua storia, pur così violenta e densa di contraddizioni, indica un'altra strada, né armata né remissiva, che scorre lungo il solco del principio di laicità: coniugare libertà individuali e interessi collettivi, distinguendo fra valori spirituali e doveri civili; costruendo un ethos del pluralismo e della coesistenza nella diversità delle identità che compongono una comunità politica. In tale itinerario, tracciato per la prima volta appunto in Occidente, non c'è spazio per identità chiuse e assolutiste, brandite come clave nel campo di battaglia di un presunto scontro di civiltà. Anche perché un'identità perfetta non esiste: esiste un puzzle, composto di tessere differenti come differenti sono gli elementi che ci definiscono. Di più: la nostra identità è «un puzzle difettoso, in cui mancano alcuni pezzi» (Z. Bauman). Pertanto, il puzzle sarà sempre imperfetto e approssimato. E il laico, poco, molto o non credente che sia, vive di questa fragile consapevolezza.

di Brunetto Salvarani
in “Vita Pastorale” del giugno 2021

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