La testimonianza di don Marco Pozza, parroco della Parrocchia del carcere Due Palazzi di Padova
Stamattina, a messa in galera. Quando la celebro, da cinque anni Antonio, che è la napoletanità fatta carne, è il mio chierichetto di fiducia. Se manca, mi sento sguarnito: ha preso trent'anni di galera senza ammazzare nessuno. Spaccio – tanto, solo spaccio, a far da spalla agli spacciatori -, però è un poverocristo indifeso, senza avvocati, senza un soldo, senza più famiglia: dunque condannato senza scrupoli. Ne ha scontati metà dei trenta. Per intenderci, Antonio è quello dei fiori, quello che un giorno, dopo che io a messa avevo detto “Ragazzi, siamo nelle mani di Cristo” (quante volte noi preti lo diciamo, in automatico), mi disse: “Bello quello che dici, dommà, ma a messa Cristo è nelle tue mani: ci pensi ogni tanto?”. Zac! Colpito, affondato, rimesso coi piedi a terra il prete. Lui analfabeta, sgrammaticato e delinquente: io col dottorato in teologia, grammaticato e ufficialmente prete dentro la nostra galera. “Così, tanto per ristabilire gli ordini qui dentro” sembra dirmi ogni tanto l'Iddio celeste.
Bene!
Stamattina altra lezione per bocca del teologo Antonio. Dopo il “Padre Nostro” solitamente è lui ad andare in chiesa (quando, per troppa affluenza, celebriamo la messa nel teatro) per prendere la pisside con il Santissimo Sacramento dentro. Tecnicamente, anche senza l'istituzione del vescovo del luogo, Antonio è un accolito: l'ho consacrato tale per evidenti e manifesti tratti di santità. Dita nelle orecchie: già sento le anime vergini della messa prima scandalizzarsi perchè un delinquente apre il tabernacolo! Fate pure. Oggi, invece, le particole le abbiamo consacrate durante la messa: dunque erano già nell'altare, non serviva andare nel tabernacolo a prenderle. Mentre frate-Damiano intona l'Agnus Dei con la sua chitarra, Antonio, con la discrezione che l'ha reso unico e amabile, mi si avvicina. Mi bisbiglia all'orecchio: “Dommà, oggi non vado al tabernacolo. L'Agnello è già qui”.
L'A-G-N-E-L-L-O è già qui.
Mi ha scioccato, mi sono fermato per qualche istante: mi ha tolto il respiro, a me che l'Agnello ce l'avevo giusto in mano, appena spezzato in due. Ho disubbidito alla concentrazione richiesta dalla liturgia: mi sono voltato verso di lui, l'ho guardato negli occhi, gli avrei dato un bacio con lo schiocco su quelle sue parole. Avete sentito che finezza? Ha detto: “L'Agnello”, non ha detto “la particola, l'ostia, il pane consacrato” (e già sarebbe stato tanto usare le parole giuste). No, ha detto con una dolcezza infinita: l'Agnello. Ho sentito la pelle vibrare, farsi pelle d'oca, mi sembrava di (ri)sentire l'eco di Giovanni Battista quando disse agli amici: “Ecco l'Agnello di Dio!” (Gv 1,36). L'Agnello, quello pronto per la Cena di Cristo. L'Agnello che ha tolto il peccato del mondo.
Nell'immaginario collettivo il detenuto è un lupo. Lupo-Antonio, di fronte all'Ostia consacrata, ha detto: “L'Agnello è già qui, dommà!”. Il lupo e l'Agnello, anche Esopo dovrebbe riscrivere la sua favola: Antonio l'ha riscritta senza manco chiedergli il permesso! Prima di entrare in sacristia, mi sono fermato sulla porta e ho fatto i complimenti ad Antonio, di fronte al diacono Adriano ch'era commosso pure lui: “Mi hai fatto piangere, Antonio: tu sei straordinario!” gli ho detto. Ho detto la verità, non ho esagerato. E lui, semplice ma non sempliciotto, mi ha rincarato la dose: “Dommà, la particola a messa non è più una particola: è l'Agnello, me lo avete insegnato voi. Per questo ci inginocchiamo tutti quando tu lo alzi”.
Silenzio, signori: tutti giù il cappello.
Carmine – l'altro mio braccio destro, assieme ad Antonio – era orgoglioso di quello a cui stava assistendo. Aggiunge: “E' vero, don Marco. Oggi ho visto più di qualcuno piangere dopo aver ricevuto l'ostia. Scusa, l'Agnello (e sorride, bonariamente, ad Antonio)”.
Scusate tutti/e, sapete che cosa vi dico? Che potete pure tenervi le parrocchie moralmente perfette, i piani pastorali stampati nelle brochure colorate, le disquisizioni teologiche su ciò che devono fare (gli altri, però) sotto le loro coperte, i sinodi indetti e quelli da indire perchè tutto resti così com'è. Noi, nel frattempo, ci teniamo stretti la nostra appartenenza a questa comunità sconquassata, moralmente peccatrice (e sa di esserlo), reietta da molti ma sponsorizzata da Cristo. Poi vedremo se, a sinodi conclusi, la gente di parrocchia saprà almeno riconoscere Cristo come lo riconoscono i banditi e le anime degli schifosi. Oppure se, tra preti e vescovi, impareremmo a credere nell'eucaristia come ci credono Antonio e Carmine. Altrimenti è proprio vero che i poveracci, sulla salita che porta a Cristo, ci hanno già seminati d'un pezzo. Hanno un'altra andatura, per questo non li coinvolgiamo mai nell'elaborazione dei nostri piani pastorali. Per non sentirci dire: "Scusate, ma ve la possiamo fare una domanda? A Cristo ci credete per finta o per davvero? Non per nulla, è che noi non abbiamo tempo da perdere: dobbiamo salvarci il prima possibile". #sullastradadiemmaus #carcereduepalazzi
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