La “tempesta sedata” di Delacroix

Per una riflessione su questo quadro del Vescovo Derio Olivero su YouTube questo è il link:


La “tempesta sedata” di Delacroix (versione 1841), Museum of Art, Kansas City

Questa tela, “La Tempesta sedata”, è una tra le più significative opere d’arte cristiana create dal genio di Delacroix. Nel caso di questo quadro, va apprezzata non solo l’attenzione alla gamma cromatica ed il gioco tra luci ed ombre, ma soprattutto l’abilità di regia scenica per cui il tranquillo sonno di Cristo è messo a confronto con l’agitazione fisica e col vigore emotivo espresso degli apostoli.

È un dipinto apparentemente semplice, che non si disperde in mille particolari, ma si concentra su pochi soggetti:
- i 10 personaggi, all’interno di una (piccola) barca a remi (sono tutti stipati) ...
- il mare scuro, in tempesta ...
- lo stretto profilo di cielo sull’orizzonte sconfinato
- la grossa onda sul retro che sembra inghiottire la barca.

Il nostro dipinto è con tutta probabilità il bozzetto, uno degli studi preparatori per la tela commissionatagli da un conte, anche se di studio ha molto poco (è piuttosto grande – 45×54 cm- delle stesse dimensioni della realizzazione finale! Quindi è un bozzetto in scala 1:1).

Attenzione: non è che per questo motivo dobbiamo cadere nell’errore di considerarlo un’opera minore, o poco significativa! Delacroix infatti si distingue dai pittori classicisti dell’epoca per la maggiore enfasi sul colore e sul movimento piuttosto che sulla nitidezza dei profili e sulla perfezione delle forme, che secondo lui depotenziano l’opera, la “sfibrano” per troppo perfezionismo. Per lui, convinto che la forma vada più suggerita che definita (= non finito di Michelangelo), lo studio preparatorio ha quindi la stessa dignità artistica del “finito”, della realizzazione finale.

Se ci concentriamo sui componenti dell’equipaggio ci accorgiamo che la burrasca provoca una grande agitazione, espressa dai bruschi movimenti dei pesonaggi. Ogni figura è impegnata in una azione diversa: partendo dall’alto, un uomo tenta di reggere il timone, e ha lo sguardo puntato verso la nostra sinistra. Un altro, subito sotto, è addormentato, reclinato su un fianco, e si regge il capo con la mano; è avvolto in un ampio panno bianco, che vira al grigio verso destra, quasi riflettendo il colore del mare scuro: in lui riconosciamo il Maestro che dorme.

Subito sotto di lui, tre personaggi sono disposti a semicerchio e creano, con i loro movimenti, a loro volta un’“onda”, quasi una “ola” Il primo a sinistra è appoggiato con la schiena alla barca: rannicchiato in se stesso, guarda il mare sotto di lui con espressione preoccupata e con una torsione del collo assolutamente innaturale (in questa testa quasi disarticolata rispetto al corpo c’è una evidente forzatura teatrale). Nell’altra figura, girata di schiena, riconosciamo una donna, certamente Maddalena, l’unica rivolta verso il Maestro e tiene le mani aperte; non la vediamo in volto, ma l’atteggiamento del suo corpo ci trasmette tensione, paura.

Le braccia levate della donna di spalle vanno progressivamente a dirigersi verso l’alto, in una energica tensione dinamica che si conclude nella figura vestita di giallo, in piedi al centro della barca, letteralmente preso dal panico. I tratti del volto sono solo accennati, e questo provoca un effetto inquietante: sono resi solo con pochi tocchi rossastri che accendono un volto quasi ferino, quasi disumano. Anche i suoi capelli sono ridotti ad una massa informe scompigliata dal vento: qui possiamo davvero apprezzare il primato che Delacroix riserva al colore e alla luce, che definiscono la forma e danno movimento ai corpi.

Accanto a questo discepolo con le mani levate al cielo, un secondo polo d’attrazione immediato per l’occhio dello spettatore è dato dall’altro che gli sta vicino: vestito di una tunica rosa, è seduto ma proietta la sua schiena all’indietro. Ci colpisce la sua mano destra che cerca disperatamente di trattenere il mantello che sembra volar via. Notevoli sono la forma e il colore candido di questa cappa, su cui infuria la forza del vento che le fa assumere la forma quasi di una piramide, che punta verso l’alto e che assume la forma minacciosa di un oggetto appuntito, un corpo contundente ed inquietante.

Di fronte a lui, l’altro personaggio che sta nella parte centrale dell’imbarcazione, è tutto proteso verso l’esterno. Qui Delacroix manifesta la sua intelligente capacità scenografica: infatti, con questo ricercato slancio tutto orizzontale, che fa da contrappun- to a quello verticale dei due che abbiamo appena osservato, si viene a creare una doppia diagonale che struttura l’intera com- posizione.

Quest’uomo col braccio slanciato in avanti, in apparenza sembra cercare una via di fuga dall’onda minacciosa che arriva dal lato opposto ... in realtà, altre versioni ci rivelano che costui è impe- gnato nel tentativo disperato di recuperare un remo caduto in acqua, che noi però non vediamo. Infine, due uomini seduti a prua, tentano di governare la barca con i remi, entrambi molto concentrati sullo sforzo (soprattutto quello di sinistra).

Infine, ad uno sguardo attento, non sfugge che nella parte più bassa, il pittore ha collocato un ultimo personaggio, il decimo, poco distinguibile perché è solo abbozzato ed è dipinto con gli stessi colori “lignei” della barca. Questo discepolo sembra dormire, ma in realtà è atterrito dalla paura, e reagisce al dramma della tempesta stringendosi al petto la veste, che usa come una sorta di scudo, e chiude gli occhi per non vedere! È la reazione tipica della depressione, in cui il soggetto entra in una specie di letargo, di paralisi, che lo spinge ad abbandonarsi al suo destino, da cui sembra totalmente sopraffatto. Un uomo che di fronte al pericolo della morte è come già morto: sembra infatti di vedere una larva, o meglio una mummia.

Ma come sappiamo dal testo evangelico, sulla barca c’è un altro dormiente, Cristo, che viene messo in evidenza dall’artista con un tocco di luce leggermente accentuata rispetto a quella che raggiunge le figure circostanti. Il sonno di Cristo, scrive la biblista sr. Grazia Papola “avrebbe potuto essere menzionato prima della evocazione della tempesta e motivato dalla fatica per esempio. Il racconto avrebbe preso un altro corso e non avrebbe prodotto alcun effetto sorpresa. Inspiegabile e manifestato nel momento cruciale del pericolo, questo sonno contraddice il disordine regnante. E il testo insiste, dando dei dettagli che si sarebbero potuti tralasciare: «a poppa, su un cuscino». Questo modo di at- tardarsi sull’immagine di Gesù ben accomodato e di accentuare l’aspetto confortevole del suo sonno abbassa la tensione del racconto. Liberato dal pensiero della navigazione, Gesù si trova nelle migliori condizioni per dormire e la tempesta non lo disturba. Un’immagine di ordine e di calma si impone mentre regna il caos nella natura e nel gruppo di quelli che non dormono. Essi se la prendono non con la tempesta ma con colui che dorme. Il te- sto non dice che essi cerchino di raddrizzare la barca e svuotarla dall’acqua, ma solo che non sopportano che Gesù dorma. Lo svegliano e l’interpellano”.

Ma oltre ai personaggi, l’altro attore principale della scena è la grande onda, che nel suo levarsi minaccioso, ben al di sopra della barca, sembra sul punto di travolgerla! Delacroix ha concentrato in questa grande onda la gran tempesta descritta nel testo evangelico. Il mare burrascoso assume un ruolo di primaria importanza simbolica, come scrive ancora sr. Grazia: “Il quadro della tempesta offre uno schizzo sorprendente per la concisione. Il vento perde il suo orientamento e turbina, si mischia al mare che si infrange in onde minacciose che violano la frontiera tra il mare e la barca. Quest’ultima rappresenta il solo spazio dove la vita umana è possibile. Essa offre agli uomini un piccolo spazio secco sull’acqua. La situazione descritta è quella della confusione generale, la più pericolosa. Il caos si insedia e l’uomo non ha più spazio”.

L’episodio della “Tempesta sedata” sul mare di Galilea, raccontato da tutti i Vangeli sinottici, è stato interpretato da Delacroix non nel suo esito finale. Giustamente il titolo con cui si riconosce l’opera non è questo, ma “Cristo e gli apostoli sul lago Gennesaret o sul mare di Galilea” perché più precisamente il dipinto ci mostra ciò che accade prima dell’intervento salvifico di Cristo, quando gli apostoli sono in preda al panico perché l’imbarcazione sta per essere ricoperta dalle onde, e Gesù dorme.

Questa pittura evoca le nostre esperienze di paura. Anche dai nostri cuori, se non proprio dalle nostre labbra, sale la domanda: “Maestro, non t’importa ce moriamo?” Anche noi ci rispecchiamo in questi personaggi smarriti, agitati, confusi, abbandonati, paralizzati ... Le loro braccia levate sono le nostre braccia. Quella barca è la nostra casa, la nostra città in balia del male che come onda oscura sembra travolgerci e sprofondarci nell’abisso della morte. Anche noi abbiamo bisogno di udire la voce forte del Signore. Anche noi siamo impauriti e riconosciamo di non avere ancora fede. Siamo noi questi discepoli, che però hanno la possibilità di passate dalla paura negativa al timore positivo, evangelico. Siamo quei discepoli, scrive infine sr. Grazia che “non rispondono alla domanda di Gesù, eppure sono sul giusto cammino. Il testo li mostra infatti profondamente trasformati e si interrogano. Questo «timore» su cui il testo insiste non può essere confuso con «l’essere paurosi» stigmatizzato da Gesù. Essi sono colpiti dal sopravvenire della calma con una profonda perplessità, ma che è di un’altra qualità. Non è l’agitazione caratteristica della paura che non fa percepire la diversità tra loro e Gesù. Il ti- more fa sentire proprio la differenza. In questo caso il timore si traduce in un interrogativo. Essi si accorgono di non conoscere Gesù, colui che dormiva non è chi si immaginavano fosse. Sono rinviati a loro stessi e cercano di capire come rapportarsi a lui. Il racconto punta perciò verso una qualità di «essere con lui» che potrebbe essere vissuto nella sua assenza, senza la possibilità di svegliarlo e di accaparrarlo, ma liberi da ogni paura e nella fede. La paura (che è sempre paura della morte) è una prova necessaria e può divenire benefica. Si sperimentano i nostri limiti e l’appello a un soccorso è un modo di aprirsi all’altro, per necessità, prima di scoprire che è la relazione con l’altro che permette di guarire dalla paura e di attraversarla. Di paura in paura si impara a fidarsi di un maestro dell’impossibile”.

Per questa ragione, con le parole di mons. Delpini, Arcivescovo di Milano riconosciamo che: “Dio ha mandato il suo Figlio per insegnarci a vivere nella tempesta e quando il mare è calmo ... La fede insegna che nessuno è mai solo davvero, anche quando si sente abbandonato”.

(Ester Brunet – Antonio Scattolini)

(dal sito www.insiemesullastessabarca.it)


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