L’ira funesta (di Achille e dei Maneskin)

Rock, voce del verbo scuotere. Per tradizione questo genere musicale canta la rottura, l’urlo di chi non appartiene al coro e vuol far tremare l’inerte status quo dei più.  

Il rock dei Maneskin e l'ira funesta di Achille: a secoli di distanza, l'uomo mostra un'identica vulnerabilità quando si sente privato di riconoscimento personale. Si va fuori di testa se il nostro nome scompare tra quello di tutti gli altri. 


«Non si hanno cambiamenti nella prassi musicale senza cambiamenti politici» afferma Platone nella Repubblica, citando un detto del maestro di musica Damone, consigliere di Pericle nella prodigiosa Atene del V secolo.

Questa frase mi è tornata in mente dopo il recente successo dei Måneskin con la canzone «Zitti e buoni», dell’album intitolato non a caso «Teatro d’ira», le cui note appartengono al rock e alla sua essenza di catalizzatore di energie giovanili, orientate a spezzare le catene da cui ogni generazione si sente oppressa dalla precedente.

È il rock dell’ira.

A differenza della rabbia, emozione reattiva che si esaurisce con l’estinguersi di ciò che la provoca, l’ira è un sentimento attivo che nasce da un mancato riconoscimento, un’ingiustizia contro la propria identità (il dies irae, giorno dell’ira, musicato da Mozart nel Requiem come se fosse presente, è il giorno del giudizio, quando tutto sarà regolato secondo verità).

I Måneskin urlano di essere «fuori» da un sistema che non li riconosce e li vuole «zitti e buoni». Che cosa non viene riconosciuto? La risposta è nella canzone «Vent’anni» dello stesso disco: «Non ti stupire se dal niente faccio drammi / Ho paura di lasciare al mondo soltanto denaro / che il mio nome scompaia tra quelli di tutti gli altri».

L’ira è il frutto del mancato riconoscimento del nome, un sentimento oggi molto diffuso tra i giovani.

La letteratura occidentale comincia proprio con la parola greca che indica l’ira: menis. Il poeta dell’Iliade chiede alla Musa: «L’ira cantami, o dea, di Achille».

Il centro del poema omerico non è la guerra di Troia, quello è solo il contesto, ma l’ira dell’eroe. Un’ira che si scatena a difesa del suo destino, per il mancato riconoscimento del suo nome: egli ha scelto di vivere poco morendo però gloriosamente, ma Agamennone gli ha sottratto il bottino che certifica la sua grandezza.

L’ira di Achille non è un capriccio ma la protezione del suo destino: se l’uomo vale quanto la memoria che lascia, il nome di Achille non può essere scalfito, altrimenti la sua scelta di morire giovane non serve a nulla. Achille non può perdere la sua unicità di eroe superiore a tutti gli altri. Infatti dopo il suo ritiro dalla battaglia, i Greci non riescono più a prevalere sui Troiani. La menis, l’ira di Achille, non è la mera collera umana, ma un sentimento divino, infatti il termine è utilizzato da Omero per ciò che provano gli dei quando l’ordine del mondo (almeno quello che ritengono tale) è minacciato: Achille, eroe divino, prova l’ira di Zeus, non quella degli uomini. «L’ira di dio» rimane infatti un’espressione metaforica per indicare, ancora oggi, una catastrofe che rimette le cose in ordine.

Urlare di essere «fuori di testa» non è fare professione di pazzia, ma tirarsi «fuori» da una cultura che impedisce di avere un nome e di lasciare un’eredità che non sia solo in denaro. La canzone riesce a interpretare un sentimento generazionale in cerca di rappresentazione. Il rock dà all’ira la forma dell’urlo contro un mondo in cui «manca l’aria».

Piaccia o no il loro stile e la loro musica, l’ira va in scena («Teatro d’ira» per l’appunto). Ma riuscirà a uscirne? Scenderà dal palco e diventerà azione che cambia il corso delle cose? Non lo so, ma sono convinto, come Platone, del fatto che un tale riscontro mostra un «sentimento popolare», come direbbe il compianto Battiato, lui che aveva usato con la sua audacia sperimentale proprio il primo verso dell’Iliade in «Cuccurucucù».

L’ira di Achille, alla morte dell’amico Patroclo per mano di Ettore, si trasforma in collera umana, rabbia (cholos: la bile), che porta Achille a tornare in battaglia. La sua vendetta è la conferma di quello stesso bisogno di riconoscimento, ma mentre prima si era tirato fuori dall’agone per l’offesa di un suo compagno d’armi, ora ci rientra perché Ettore, suo rivale, gli ha tolto ciò che Achille riteneva suo. L’Iliade però non finisce con il trionfo dell’eroe sul nemico, ma con l’incontro tra Achille e il padre di Ettore, il vecchio re Priamo, prostrato davanti a lui per chiedere il corpo devastato del figlio così da dargli sepoltura.

In quel momento Achille si trova davanti alla verità: la guerra è solo la costruzione di una identità apparente, basata sulla violenza che divide il mondo in oppressi e oppressori, per smania di autoaffermazione (il potere dà la dolce illusione di esistere di più), come ha svelato Simone Weil nel suo libro sull’Iliade, mentre la grandezza dell’uomo è nella pietà: un padre che si umilia per avere indietro almeno il corpo del figlio.

L’ira non basta, ci vuole la pietà, questo rende l’uomo grande: rompe la dinamica oppressi/oppressori e apre al riconoscimento di sé e dell’altro. Spero che alla musica dell’Ira dei ventenni risponda quella della Cura del settantenne Battiato: «Perché sei un essere speciale/ Ed io avrò cura di te/ Io sì, che avrò cura di te».


(dal Blog "Prof 2.0" di Alessandro D'Avenia - pubblicato nella sua rubrica "Ultimo banco" sul Corriere della Sera del 31 maggio 2021)



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