Domenica XXIII PA - Mc 7,31-37

È quasi un corpo a corpo che narra Marco: dita conficcate negli orecchi, la saliva posta sulla lingua, il sussurro, quasi un gemito “effetà”, il soffio di un vento sottile. Nulla di magico ma un contatto e una intimità sconcertante che narra come sia fondamentale la capacità di apertura e affidamento a una esperienza di alterità sia da parte di chi ha bisogno di aiuto, sia di chi ha la possibilità di farlo. 


Riprendendo domenica scorsa a seguire l’Evangelo di Marco dopo l’interposizione della Sezione dei Pani di Giovanni con il duro confronto tra Gesù con gli inviati dal Tempio che ha portato all’abbandono di una parte dei suoi seguaci, ci siamo di nuovo trovati all’interno di una discussione non meno radicale su che cosa sia l’impurità e l’elenco finale di quali siano i dodici atteggiamenti dell’uomo che lo conducono ad essere “impuro” cioè a perdere la sua umanità e a trovarsi posseduto dagli spiriti impuri. Sulla scia delle denunce dei profeti ha anche tacciato i presenti di essere dei commedianti perché svolgono delle pratiche religiose delle quali hanno smarrito il senso e che, quindi, a Dio non interessano.

 

Gesù ha ripreso poi a girare in lungo e largo in terra pagana quasi senza meta, senza seguire un itinerario logico. Marco non ci dice se con lui ci siano gli Apostoli, di fatto questi non compaiono mai. C’è comunque sempre molta folla attorno a lui che, a un certo punto, gli conduce un uomo che, più che “sordomuto” è “sordo” e “balbuziente” così come i Settanta traducono in greco il termine greco prendendo come riferimento nella Scrittura il celebre passo di Isaia 35,6 che annuncia il cammino di ritorno degli esiliati verso Sion. Questo termine, balbuziente, ricorre solo in queste due occasioni nell’intera Bibbia.

Questo uomo che gli viene portato perché gli imponga la mano rappresenta un popolo che incapace di intendere la volontà di Dio ascoltando la sua Parola e, quindi, anche di “esprimersi” correttamente nella sua vita balbettando fino ad essere totalmente passivo. È questa una situazione simbolica con la quale siamo chiamati a confrontarci sia come singoli credenti sia come comunità ecclesiali: fuori di un costante ascolto della Parola il nostro vivere, attraverso il quale si dovrebbe manifestare l’avanzare del Regno, diventa un balbettamento che può essere anche contradditorio quindi incomprensibile se non controproducente e una contro testimonianza, cessando di essere “sale della terra, luce del mondo”.

Se non si ascolta facilmente si scade ad aderire alle regole di questo mondo, a quegli atteggiamenti indicati da Gesù la scorsa settimana che rendono “impuro” l’uomo per il suo modo di gestire i beni e per il suo rapportarsi con gli altri.

Come in diverse occasioni nel testo di Marco, anche il personaggio di oggi “viene portato” a Gesù per dirci che, quando si entra nel modo di pensare e vivere del mondo, si perde la capacità di autonomia, ci si adagia nel tran-tran quotidiano che rende incapaci di riscatto autonomo. C’è bisogno di qualcuno che ci “porti”, ci si affianchi, ci si faccia compagno di strada e con pazienza, rispetto dei nostri tempi ci porti o riporti verso l’adesione al Regno che viene. Anche qui c’è una ripresa dell’Evangelo della scorsa settimana: chi abbandona Gesù non sono delle persone “cattive” da lasciar perdere, non viene chiesto di allontanarci da loro, ma di continuare un cammino assieme rispettoso delle loro scelte in attesa del momento opportuno, quello nel quale lo Spirito riesca ad agire se non gli si sono sbarrate tutte le porte (il famoso e imperdonabile peccato contro lo Spirito).

L’Evangelo di oggi è chiaro e netto: questo avviene non per vie eteree, bensì attraverso l’incontro a tu per tu, uomo con uomo, umanità con umanità. Se la perdita di umanità, l’incapacità di ascolto e di vita coerente avviene nell’adeguarsi adagiandosi alla realtà del mondo, l’incontro capace di riscatto non può avvenire in questo contesto, in mezzo alla folla: è necessario un momento appartato nel quale l’uomo possa ritrovare se stesso, la sua soggettività attraverso l’incontro con l’altro. 

È quasi un corpo a corpo che narra Marco: dita conficcate negli orecchi, la saliva posta sulla lingua, il sussurro, quasi un gemito “effetà”, il soffio di un vento sottile. Nulla di magico ma un contatto e una intimità sconcertante che narra come sia fondamentale la capacità di apertura e affidamento a una esperienza di alterità sia da parte di chi ha bisogno di aiuto, sia di chi ha la possibilità di farlo. È un risveglio alla vita quello che avviene e può passare solo attraverso un corpo che esprime una umanità piena. Nel nostro brano è l’incontro con il Cristo, nel nostro oggi con noi discepoli che siamo nella partecipazione al Pane Unico il suo Corpo. Vale a dire: oggi spetta a noi ridare umanità piena a chi ne ha perso le tracce attraverso un contatto che ci mette in gioco fino in fondo, fino al dono della vita.

La guarigione avviene in un logo appartato senza testimoni, ma è la folla che proclama “Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!” facendo riecheggiare Genesi 1,31. Si è una nuova creazione, è a questo che siamo chiamati.

(BiGio)

1 commento:

  1. I "miracoli" di Gesù non riguardano solo il passato, i giorni del suo passaggio su questa terra, ma l'oggi per noi e per chi incontriamo.
    Gesù può operare un'apertura all'ascolto e alla parola solo se noi ci lasciamo condurre in disparte, e lasciamo che il Signore operi l'apertura. Solo così noi potremo poi essere ascolto e parola per l'altro

    RispondiElimina