Il cinema rappresenta la realtà del nostro oggi a volte raccontandola direttamente, a volte guardando al passato per parlare del presente, ma non sempre riesce ad interpretare e offrire chiavi di lettura adeguate.
È quanto è emerso in questa 81 edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica a mio avviso complessivamente deludente. Da una Mostra d’Arte Cinematografica ci si attende inoltre di venire stupiti almeno da tentativi di linguaggi nuovi in realtà apparso in parte solo nel georgiano “April” (Premio speciale della Giuria) della regista Dea Kulumbegashvili. Un film duro, dolente con al suo centro il tema dell’aborto clandestino, ma con splendide sequenze sulla capacità della natura di rinascere simboleggiata anche dall’apparizione dell’interprete in punti di svolta della narrazione avvolta in una specie di tessuto embrionale.
Non sorprende il Leone d’Oro ad Almodovar che pone all’attenzione il tema del fine vita anche se per l’ambientazione appare come possibilità di classi sociali molto abbienti mentre coinvolge tutti. Un film elegante ben costruito con due interpreti eccezionali e dialoghi intensi nella presentazione delle tesi sostenute. “La porta della stanza accanto” si è rilevato facile da premiare mancando un prodotto che emergesse e si distinguesse con chiarezza come, per esempio, accaduto l’anno scorso con “Povere creature”.
A mio avviso più un film da Mostra è stato “Ainda estoi aqui” del brasiliano Walter Salles che, non per nulla, ha ricevuto il Premio per la Migliore Sceneggiatura e la sua interprete Fernanda Torres avrebbe meritato la Coppa Volpi per la miglior interprete femminile al posto della Nicole Kidman in un film tra i più brutti e invedibili di questa edizione assieme a “Queer”. Probabilmente uno speciale manuale Cencelli ha chiesto diversamente alla Giuria come anche il Leone d’Argento al film italiano “Vermiglio” certamente il migliore dei cinque italiani non solo per una fotografia splendida ma dai ritmi che ricordano troppo Olmi e finisce per non affascinare.
In genere poi film troppo lunghi che a un certo punto si perdono come per esempio “The Brutalist” che ti inchioda l’attenzione per le prime tre ore ma alla fine si slabbra un po’. Un film fatto più per gli Oscar che per una rassegna come quella veneziana.
Prodotti poi che hanno la necessità alla fine di avere un “pippone” che lo spiega a mio avviso significa che lo stesso regista e scenografo hanno capito di aver fallito come “Iddu” sulla controluce della storia di Messina denaro e “The Quiet Son”. Quest’ultimo presenta l’interessante questione di strade diverse che possono prendere due fratelli ma manca di una decente attenzione sociologica e finisce per sfiorare il moralismo assieme all’alzata di mani del padre che non sa darsi ragione di quanto accaduto.
Molti film hanno avuto al centro il tema dell’amore e della sessualità. Quello che lo svolge meglio è il norvegese “Love” dai toni pacati che serenamente presenta ogni tipo di amore (etero e omosessuale) e le diverse difficoltà che ogni coppia deve affrontare, in particolare in una società che si pensa liberata su queste tematiche. Forse un po’ troppo parlato, ma affatto banale e che, in ogni caso fa sprofondare nel dimenticatoio “Babygirl” e “Queer” nel quale l’unico pregio affermato da una amica scenografa fiorentina che lavora negli Usa è l’apparizione di un bradipo al centro del film. “Joker: folie à deux”? L’unico pregio di questo film è che non ci sarà una terza ripresa perché Joker viene ucciso.
Da una Mostra d'arte ci si aspetterebbe di più di quanto visto quest'anno, forse bisognerebbe vere più coraggio e non puntare principalmente sull''eclatante delle produzioni statunitensi che attirano sì pubblico ma a scapito di altri aspetti, Perché poi presentare 5 film italiani quando non meriano?
Molto più interessante nella seconda parte della rassegna i film della sezione Orizzonti che. Oltre al film che ha vinto “The new year that never cam” (sulla fine di Ceausescu) qui sono elenco: “My everythings”, “Happy Holidays” (sulle diversità culturali tra due giovani: uno palestinese e l’altra ebrea), il tunisino “Aicha” (sul comando della politica sulla giustizia), “L’attachment” (su come elaborare il lutto della morte della moglie con due bambini) e “Familiar Touch” che giustamente ha fatto incetta di premi.
Una menzione speciale non si può non farla al film fuori concorso di Takeshi Kitano “Broken Rage” nel quale la mano del grande regista non si smentisce in invenzioni continue mostrando ambedue le sue mani: quella violenta e quella autoironica. Il divertimento è assicurato e si esce dalla sala rasserenati e gioiosi.
Un accenno va fatto anche sul deciso miglioramento della gestione delle sale meno ingessate in allotment rigidi che più di una volta lasciavano ampi spazi inutilizzati mentre la richiesta di accesso era abbondante.
(BiGio)
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