I discepoli stanno accompagnando Gesù ma non lo "seguono". Non li rimprovera ma riorienta il loro sguardo con un paradosso: “chi vuole essere il primo deve essere l’ultimo di tutti, il servo di tutti” e l’accento cade su questo “tutti”, proprio di “tutti” anche di chi ti ha fatto del male e abbraccia un bambino...
L’Evangelo di Marco ci ha accompagnato, attraverso coloro che incontravano Gesù, a porci molte domande su chi lui sia e Domenica scorsa è stato lui a chiederci chi sia lui per noi, su quanto siamo disposti a condividere la sua vita, il suo modo di essere, di vivere ed operare mettendo al centro il bisogno dell’altro e non i nostri interessi personali, fino a donarla completamente.
L’intero capitolo 9 di Marco è centrato attorno in modo serrato attorno al verbo “interrogare” all’interno di un dialogo continuo nel quale le reciproche domande si rincorrono e Gesù si dimostra molto attento a far comprendere bene cosa significhi seguirlo fino alla fine. Per questo riprende, lungo il cammino dal nord della Galilea ritornando verso Cafarnao quell’insegnamento che aveva causato la dura reazione di Pietro e l’invito di Gesù a rimettersi dietro a lui. Questa volta la reazione degli apostoli è il silenzio assordante di chi non si vuole rendere conto della realtà alla quale sono chiamati o, meglio, di chi non si rassegna a rinunciare alle sue aspettative per accogliere il progetto di uomo che il Padre attraverso Gesù propone loro. I diversi tipi di messianismo esistenti allora in Israele concordavano su un punto: il Messia sarebbe stato un vittorioso, non quel “perdente” nel quale di primo acchito loro traducevano quello che sentivano dalla bocca di Gesù.
In realtà il suo insegnamento non voleva avere nulla di “intellettuale”, ma desiderava essere totalmente esistenziale. La richiesta di “aderire” a lui, di far proprio il suo modo di vivere, cercava proprio questo. Tra l’altro non è indifferente notare come l’incipit di quanto Gesù dice è al presente indicativo “Il Figlio dell’uomo viene consegnato” cioè l’uomo riuscito secondo il progetto del Padre, quell’uomo capace di rinunciare ai suoi progetti per assumere quelli di Dio, di farsi carico del bisogno di coloro che incontra, di ridare “vita” a chi l’aveva persa, di riportare nell’altro la capacità di generare vita, questo uomo riuscito è stato consegnato nelle mani degli uomini. Tecnicamente i biblisti chiamano questo presente un “passivo divino”. È qualcosa che è avvenuto o, meglio, avviene nell’incarnazione di un Dio che si fa uomo per rendere l’uomo capace di essere partecipe della sua stessa vita mettendosi nelle sue mani. Da questo dipende tutto il resto di una esistenza nella quale si sceglie liberamente di aderire a quel progetto: nessuna imposizione ma nemmeno illusioni o sogni. È necessario invece aere coraggio e risolutezza in una mitezza capace di non recriminare od avere reazioni violente nemmeno con la parola nei confronti di chi ci farà soffrire. Parafrasando Gesù conclude: “siatene certi che l’unico modo per sconfiggere la morte è donare la vita per amore”.
Nel proseguo della pericope di oggi queste, tre qualità appaiono trasparire con chiarezza in Gesù. Lungo la strada i discepoli non hanno avuto il coraggio di porre domande, né chiedere chiarimenti; possiamo immaginarli borbottanti tra di loro un poco distanti da lui che li. Una volta giunti alla loro meta ed entrati in casa, luogo tranquillo nel quale ci si può rilassare dopo il viaggio, Gesù che pone loro una domanda “Di cosa discutevate lungo la via?”. Il loro silenzio è ora di imbarazzo per un confronto tra di loro su chi fosse “il più grande” che comprendono si poneva all’opposto dell’immagine di “uomo riuscito” che con costanza e coerenza Gesù proponeva loro.
In altre occasioni Gesù era esploso tacciandoli di essere duri e tardi di comprendonio; questa volta no, si siede e “li chiamò” a sé. Strano sono all’interno di una piccola casa e “li chiama a sé”: ma sono già tutti là, perché questa sottolineatura? Sono vicini fisicamente ma lontani da quanto lui propone loro di essere: lo stanno accompagnando ma non lo “seguono”. Allora pone la stessa attenzione carica di affetto avuta al loro rientro dalla missione e, anche questa volta, non li rimprovera ma riorienta il loro sguardo con un paradosso: “chi vuole essere il primo deve essere l’ultimo di tutti, il servo di tutti” e l’accento cade su questo “tutti”, proprio di “tutti” anche di chi ti ha fatto del male. Abbraccia un ragazzino e così lo pone al centro, al suo posto e dice “e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato”. È l’accoglienza degli ultimi quello che permette la presenza continua del Padre all’interno della Comunità, dell’umanità.
Non è sbagliato voler essere i “primi” e Paolo, con altre parole, ci offre delle coordinate precise per esserlo: “Amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno e fate a gara nello stimarvi a vicenda” (Rm 12,10). Considerate sempre l’altro superiore a voi stessi, state a servizio dell’altro senza fare tutto da soli ma coinvolgendo e condividendo ogni scelta perché sia di tutti, così non si inorgoglisce il cuore e si rimane sereni “come un bimbo svezzato in braccio a sua madre” (Ps 131,2)
(BiGio)
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