Il cammino che la liturgia ci sta facendo fare in questo anno, oggi ci introduce al tema della venuta del Regno di Dio nell’Evangelo di Luca che ci propone - secondo il suo stile – due parabole affiancate: quelle dalla vedova e del giudice ingiusto (questa XXIX Domenica) e quella del fariseo e del pubblicano (Domenica prossima). La parabola di oggi non può non richiamarci alla memoria quella dell’amico importuno e la seconda quella sulla scelta dei posti a tavola. Ambedue sono state proclamate in precedenza rispettivamente nella XVII e nella XXII Domenica; quindi relativamente recentemente: il 24 luglio e il 28 agosto.
Due importanti appunti previ al prendere in esame la parabola di oggi. Innanzitutto viene introdotta con una nota da Gesù: “sulla necessità di pregare sempre senza stancarsi”. Colpisce questo “essere necessario” perché normalmente è un verbo usato negli annunci della passione. Qui invece non è rivolto alla vita di Gesù, ma alla nostra.
Interessante è pure come quel “senza stancarsi” può essere più letteralmente tradotto con un “senza incattivirsi”. Il perché lo troviamo in Paolo quando, nella lettera ai Galati (6,9), avverte di fare attenzione perché c’è il pericolo a forza di fare voler fare il bene, di intestardircisi su fino a incattivirsi.
La parabola è nota. Una vedova, cioè una persona (ogni persona e pure ogni realtà e comunità oppressa) fragile che ha perso chi possa sostenerla e difenderla, contro due persone che si comportano ingiustamente contro di lei: l’avversario che lei contesta e un giudice che non ha voglia di impicciarsi, perché forse così finirebbe di inimicarsi un notabile del tempo oppure perché ha ricevuto qualche bustarella; situazione diffusa anche all’epoca e denunciata dai profeti come, per esempio, all’inizio del libro di Isaia.
La donna però non è remissiva e il suo tono non è piagnucoloso, ma quasi imperativo: ”Fammi giustizia contro il mio avversario!”.
Il giudice alla fine cede purché questa vedova non continui importunarlo; il verbo greco qui usato è particolare e letteralmente significa “colpire sotto gli occhi”. Se questo fosse avvenuto, avrebbe ridicolizzato in pubblico il giudice ritrovandosi con un occhio nero fattogli da una “inerme” vedova.
La parabola si chiude non sottolineando che la donna grazie al suo temperamento ha avuto quello che desiderava, ma con l’invito di Gesù a porre attenzione alle parole del giudice ingiusto e invita a porsi una domanda, se questo è accaduto con un giudice iniquo, “Dio non farà giustizia ai suoi eletti?”. È quest’ultimo un termine apocalittico che desidera richiamare la nostra attenzione sul fatto che la nostra preghiera deve avere sempre per orizzonte gli eventi ultimi, quelli della fine di questo nostro mondo e l’avvento di quello nuovo nel quale sono chiamati a vivere di “eletti”. Ma, se questi, si trovano oggi a “gridare giorno e notte” a Dio è perché oggi vivono tempi di difficoltà, di fatica, di malattia, di guerre. E chiedono al Padre più che la liberazione, forza e coraggio mentre attendono che lui faccia giustizia “prontamente”. Si, ma quando?
C’è il pericolo, se ci si ferma qui, di pensare che l’invito sia quello di pregare incessantemente tanto da “procurare fastidio” a Dio, fino a farlo temere di ritrovarsi con un occhio tumefatto e solo allora interverrà “prontamente”.
Però se si fa attenzione alla lettera della parabola, il giudice iniquo non aveva dato retta alla vedova per un molto tempo poi, all’’improvviso, di colpo, quasi di sorpresa, in un istante le ha reso giustizia. Quindi il punto non è il “quando” temporale secondo il nostro calendario e lo scandire delle nostre ore, ma sulla certezza che questo avverrà: Dio certamente risponderà, questo è sicuro ma sarà improvvisamente, accadrà tutto in un istante, di colpo, senza che ci siano segni che preparino questo evento. Ma noi, lo staremo ancora aspettando? Guardando dal lato di Dio non c’è problema: farà giustizia. Ma noi? Continueremo a “gridare?
Ma a chi? a un dio (con la “d” minuscola) dal quale ci aspettiamo il colpo di bacchetta magica e magari finiamo per imprecargli contro perché non interviene e rimane impassibile difronte alla nostra sofferenza, alle nostre invocazioni di giustizia?
Qui c’è un aspetto importante: certo, la misura della fede è quella della preghiera, ma la fede vera non è parlare bene di Dio e dirgli di noi, bensì il rivolgersi a lui per ascoltarlo e rispondergli di conseguenza.
Rimanere in fiduciosa preghiera (cioè avendo “fede”) significa mantenersi sempre in contatto con il Signore cercando di comprendere la sua volontà, in modo di mantenerci sempre pronti a cogliere il momento nel quale ci metterà davanti l’opportunità di dare il nostro contributo a un mondo nuovo nel quale regni la sua giustizia che, spesso, non collima con i nostri desideri.
Questo è quello che Luca sottolinea continuamente narrandoci la vita di Gesù e la sua preghiera. Questa è la fede che non delude perché esprime la consapevolezza che già ora viviamo qualcosa del Regno di Dio. Sta a noi dargli concretezza e ci riusciamo quanto più saremo sotto la signoria della sua misericordia e, contemporaneamente ne saremo la misura efficace tra gli uomini e nel creato.
(BiGio)
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