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I Giovani gli adulti e il gender

 Le teorie gender non esistono. Non, almeno, nella forma di spauracchio che coloro che le avversano temono. Esiste invece la ricerca di un’identità di genere oggi sempre più fluida: che per i giovani è costitutiva, primaria, ma che vedono in maniera molto diversa rispetto alle generazioni che li hanno preceduti.

È per questo che nelle scuole e nelle università è così importante che se ne parli (lo si fa già, del resto: la differenza è se ad interrogarsi sono anche le istituzioni, come necessario). E che si consentano percorsi di sperimentazione diversi, come gli alias, il cambiare nome e apparenza: perché è davvero un altro mondo quello che ragazzi e ragazze stanno attraversando, anche se noi, generazioni precedenti, non lo capiamo. Per molti di loro è la nuova normalità. Sono cambiati i costumi sessuali, ma anche i sentimenti e il modo di esprimerli, e le forme di espressività. Il semplice fatto che la distanza dal primo rapporto sessuale al momento del matrimonio o semplicemente di una convivenza, di un legame più stabile, sia aumentata così tanto, e si misuri ormai in lustri, nemmeno in anni, ha fatto sì che in mezzo si apra un campo e un periodo di sperimentazione, anche per tentativi ed errori, con un aumento dei partner e del tipo di rapporti: il cambiamento anche culturale che c’è già stato consente ai giovani di sperimentare e sperimentarsi come nessuna generazione precedente ha potuto fare. Sì, certo, è anche un fenomeno di moda, ed è normale.

Come per tutte le cose significative che ci riguardano: ma dietro ci sono domande autentiche, vita vissuta, sofferenze anche (basterebbe ascoltare coloro che si sono trovati in situazione di incertezza identitaria, magari abitando in un piccolo paese, non capiti dalla famiglia, dal contesto che avevano intorno, e solo grazie a internet hanno scoperto che la loro ricerca aveva un nome, che c’erano migliaia di giovani come loro, e questo li ha salvati). Se ne discute, si parla, si sperimenta, si assumono comportamenti diversi, e se ne capisce il costo, la difficoltà, l’impegno. La società complessivamente ci guadagna. Bisogna cominciare a pensare che a essere capaci di vivere l’esperienza dell’altro non ci si perde niente: ci si arricchisce solo, e ce n’è un enorme bisogno. I giovani in questo vogliono davvero essere diversi dalle generazioni che li hanno preceduti, e potranno vivere in un mondo diverso perché lo stanno già costruendo.

Non è lo sfizio di un progressismo ottuso, che viene accusato di non vedere i veri problemi della società, mentre questi sarebbero inutili e irrilevanti. Così come per l’accettazione della pluralità culturale, il multiculturalismo cui viene spesso accoppiato, l’attenzione al genere mostra che per le giovani generazioni, tanto la diversità etnica e razziale, quanto la differenza di genere, è sempre più irrilevante. È proprio un salto generazionale. Come i bambini che fin dal nido hanno come compagni bambini di altra religione, colore della pelle, etnia, e non lo vivono come problema, non si fanno problemi ad accettare queste diversità, almeno fino a quando non si mettono a ripetere pappagallescamente i pregiudizi appresi in famiglia, dai loro genitori, così è per l’identità di genere, e i comportamenti detti devianti, o non conformi. E questo processo, ormai innescato, è irreversibile: tanto vale tenerne conto.

Forse sta accadendo qualcosa di simile all’attenzione per l’ambiente e per la natura: la cecità ottusa non è la loro, è la nostra, che non ci siamo accorti di quanto eravamo parte di un tutto. Ecco, loro si accorgono di essere anche plurali, liquidi, più di quanto noi pretendiamo di essere (senza esserlo davvero), singolari e solidi, quando non tetragoni. In particolare nella fase della vita, sempre più lunga, in cui sono a scuola e all’università: in cui discutono, si fanno domande, si posizionano rispetto alla società, cambiano e la cambiano. Per questo è necessario non solo tenere conto della loro ricerca e della loro espressività, ma anche ascoltarli. Abbiamo qualcosa da imparare pure noi.

Non stupisce che a favore di una discussione aperta sul tema siano in primo luogo gli insegnanti e gli psicologi. I primi perché sono quelli incaricati dalla società di far funzionare il processo di socializzazione, che nelle famiglie funziona sempre meno: trasmettendo valori che si scoprono sempre meno condivisi. E i secondi perché una marea di questi ragazzi li hanno in cura, proprio perché non li ascoltiamo, e non ci rendiamo conto dei cambiamenti che hanno attivato. Così come non stupisce che un pezzo della politica e della società continui ad essere contro a qualunque discussione: proprio perché è lontana da questi mondi, proprio perché non li capisce.

(Stefano Allievi)

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