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Tra l'avere una faccia tosta e un'infinita misericordia

Pare proprio che solo una sincera autocoscienza e un definitivo abbandono siano capaci di incontrare un’infinita misericordia.


Bella una Chiesa fatta di tanti piccoli gruppi di credenti – cercatori che si raccontano come va la vita e cosa vi aggiunge il Vangelo. I cristiani in niente si differenziano dal resto degli uomini se non perché confrontano il pensiero della vita col racconto che Gesù ne fa, alla fine convinti che non c’è rivelazione che il futuro possa aggiungere. Il tempo ci è dato per viverci la passione, l’abbandono e la fiducia. Dice san Paolo: “…Io sto già per essere versato in offerta ed è giunto il momento che io lasci questa vita. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede”.   
Siamo nel mondo, siamo mondo anche noi e non è semplice fare la differenza, conservare la fiducia nella prova e rimettersi a Dio, quando è forte il sospetto che Egli non ci sia o se c’è si occupi d’altro. Tutta la liturgia svolge il tema perenne dei perdenti e dei poveri che alla fine guardano in alto. Noi siamo moderni, ma cosa cambia? Non siamo provati? Abbiamo soluzioni intermedie, ma al dunque “solo in Dio riposa l’anima”, recita il Salmo 61, e il primo proclama “beato l’uomo che confida nel Signore”.    
Siamo pur sempre ‘mondo’. Gesù avverte: “State attenti al lievito dei farisei, di Erode, dei sadducei”. Del vivere in superficie, del far coincidere la correttezza con l’abito, la conoscenza con le parole acconce, il valore con il potere. Certe maniere formali prevedono l’uso delle scuse. “Mi scusi, posso?”, “Scusate, disturbo?”. Che bello, segno di civiltà che avanza. Magari! In situazioni più critiche si scappa. “Io non ho colpa, è stato lui…”. Succede che ci si sbagli, dov’è la colpa? Quale ferita ci spinge a negare la responsabilità? “Io non c’entro”. Tale ferita è un problema di igiene della mente o dell’anima? E se si è costretti dall’evidenza ad ammettere un torto fatto, lì per lì ci aggiungiamo una sfilza di giustificazioni. Siamo mossi dall’urgenza di saperci al coperto, incolpevoli. L’imperativo è non perdere la faccia. Si chiama improntitudine, faccia tosta. Un giudizio sociale di immagine incombe sopra e dentro di noi, che è pura ideologia. Sempre stato, certo. In più oggi c’è il mercato che impone il modello dell’efficienza, giacca e cravatta. Il fariseo lava l’esterno, allunga i filatteri, si mette in vista nelle piazze, è ligio ai precetti, paga tutte le decime, contende ai maestri la conoscenza, riconosce che la sua condizione di vincente gli viene da Dio e lo ringrazia. È religioso e questo fa la differenza con i farisei di oggi che, nonostante ipocrisie, inadempienze sostanziali, attribuiscono solo a sé, alla propria abilità di saperci fare l’immagine di successo che si sono costruiti, l’andare a fronte alta, facce di bronzo in una società di uomini, ominicchi e quaquaraquà, per dirla con Sciascia. Il solo pensiero di sentirsi a posto è farisaico. Il guaio non è sbagliare ma perdere la faccia. Allora? Negare tutto. Bisogna farsi santi per dire: “Sono stato io” e non è vero.           
Non ne siamo fuori, altrimenti non ci riguarderebbe l’avvertimento: “Guardatevi dal lievito dei farisei”.           
A conti fatti ci sentiamo meglio rappresentati dal pubblicano, la cui autocoscienza sentiamo più autentica e vera: attira benedizione.          
Proprio lui che ruba il denaro ai concittadini, ne tiene gran parte per sé e il resto ai Romani, non sa come acquistare uno sguardo di misericordia su di sé, ancor meno può attenderselo da Dio, neanche osa alzare gli occhi né si figura di camminare al passo con lui come si fa tra amici, è lontano… ma non ha altri a cui dire il peso che porta! “Potessimo esser accolti con il cuore contrito e lo spirito umiliato…”. Così in Daniele 3. Questo basta, quello che i non credenti non immaginano di fare, che i credenti faticano a fare. 
Qual è la differenza con il fariseo? Questi ha una coscienza leggera, ma ne fa motivo di vanto, si compiace d’essere messo meglio di ‘quell’altro’. Che ha gravi responsabilità e le riconosce per intero, non gioca alle belle statuine, non va in cerca di attenuanti, di riscritture psicologiche. Nemmeno risolve la questione in sé, non chiude. E la differenza la fa la misericordia di Dio.       
Il pubblicano ci permette di riconoscere quanto Dio ci manca, quanto ce lo facciamo mancare! Pare proprio che solo una sincera autocoscienza e un definitivo abbandono siano capaci di incontrare un’infinita misericordia.

(Valerio Febei e Rita)

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