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Mettersi nei panni di Zaccheo

È necessario decidere se questo è il racconto di un episodio a cui assisto o se entro in scena come Zaccheo, ne vesto i panni, ne assumo l’identità.


Tanto più si conosce qualcosa quanto più si fa tutt’uno con la cosa stessa. Conoscere infatti significa ridurre la distanza tra il soggetto e l’oggetto. Ciò è tanto più vero in un contesto biblico, dove conoscere indica una relazione intima, anima e corpo com’è tra coniugi. Così vuole funzionare la Parola, che non è scontato: tra noi moderni vige il metodo scientifico che distingue il conoscente dal conosciuto.   
Il brano di Zaccheo, per esempio, vale come racconto di un fatto che ha entusiasmato i presenti e il redattore, ma può lasciarci spettatori compiaciuti e nulla più. 
Il discorso cambia se sento di essere io Zaccheo, se sono io che, dimentico del mio fardello degradante, mi lascio andare alla curiosità e al desiderio di vedere alcunché di bene e di bello che viene su circondato dalla folla vociante, se sono io che corro avanti, invento un albero su cui salire e aspetto in posizione alta che passi quest’uomo prodigioso, che guarisce i malati, rincuora i poveri, benedice le anime afflitte, perdona i peccati. Quel che la mia condizione fisica e lo status di dannato sociale mi impediscono, con un po’ di iniziativa me lo sono aggiudicato.  
È un merito per me, lettore moderno, quello di immedesimarmi nel personaggio di Zaccheo e sentire le parole di Gesù che leggendo in me quel che non saprei sperare si rivolge proprio a me dicendo: “Che fai lassù? Scendi, vengo a casa tua”. Io non scendo, precipito giù, fisso gli occhi su di Lui che mi fissa e corro ancora, corro a casa per dare ordini e preparare l’accoglienza, inciampo sui ciottoli, non vado meglio con le parole che, nell’emozione si arrotolano una sull’altra e, senza sapere perché, sono già beato. Rinasco davvero e non so come, so che la mia condizione non mi è più di peso, nulla è cambiato, i segni verranno dopo, ma tutto è già cambiato: colui che ha nella parola e nel gesto una virtù risanatrice e benefica è ospite a casa mia, non ci posso credere!           
Sì. Lo so che poi alcuni, i soliti farisei, sedicenti uomini perbene, capi del tempio, per invidia verso quell’uomo buono, a causa mia cominciano a insultarlo. “È andato a casa di uno scomunicato, vergogna!”. Eh no, gli dico. Sarà anche vero che faccio un lavoro socialmente riprovevole, ma ora ecco: una metà dei miei ben la do ai poveri e restituisco quattro volte tanto a qualcuno che ho frodato. (Perché 4? I Romani davano facoltà al gestore delle imposte, in genere un ricco commerciante – una volta che questi aveva versato in anticipo il totale stabilito dal governatore – di pretendere dai singoli contribuenti fino a quattro volte l’imposta dovuta. Un latrocinio).     
Insomma correggo la situazione e il mio diventa un lavoro vero e proprio, poiché quel che è di Cesare gli va comunque dato, lo stato deve funzionare e le tasse vanno pagate.
 
Per chiudere: farsi contemporanei del Vangelo. La differenza è data dal grado di immedesimazione che scegliamo di avere. Io decido se questo è il racconto di un episodio a cui assisto o se entro in scena come Zaccheo, ne vesto i panni, ne assumo l’identità. Io sono Zaccheo appunto, con un segreto, intimo desiderio di vedere Gesù, io che con tutto il male che ho dentro mi prendo questo spasimo di gioia dimenticando i miei guai. È l’unico modo per incrociare il suo sguardo e sapermi guardato, riconosciuto più di quanto io mai immagini di riconoscermi e sentirmi dire: “La gioia che cerchi non è un momento fugace: è per sempre, se vuoi”. Come, Signore? “Conserva in te la mia parola, io sono là”.
Tra me e il Signore c’è solo il mezzo della mia mente. Essa di per sé è come una scimmia, dispersiva e riottosa ai comandi, se cedo per me è finita: scava dei solchi nei quali si allineano i pensieri tossici, viziati.      
Guarire la mente è tutto. Avere la mente in Dio era, è la funzione delle ‘giaculatorie’. Un tale alzandosi la mattina diceva: “Signore, oggi io e te sempre insieme!”. Così Gesù si fa presente a noi e noi a Lui e questa è la prima guarigione. Poi viene la conversione e la rinascita.

(Valerio Febei e Rita)

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