Due donne che non possono più generare chiedono non di essere guarite bensì la "salvezza" e diventano "figlie" con il consiglio di darle da "mangiare". Ma che cosa?
Dopo la casa nella quale stare dentro con Gesù o scegliere di rimanere fuori rifiutando il suo modo di vivere e di fare, dopo la parabola del seminatore e della tempesta sedata, l’Evangelo di oggi ci pone difronte a due donne senza nome nelle quali perciò siamo chiamati ad identificarci. Una da dodici anni soffre di perdite di sangue che la rende impura e non più fertile, l’altra muore proprio quando, a 12 anni, è in età di poter sposarsi e diventare madre. Questo numero non è certamente un caso: dodici sono le tribù di Israele e la donna in tutta la letteratura profetica è immagine del popolo come sposa del Signore. Il sangue poi è il simbolo della vita che in quella donna via via se ne sta andando.
In Genesi Adam quando dà un nome alla compagna che il Signore le ha messo a fianco, la chiama “Hava perché essa fu la madre di tutti i viventi.” (Gn 3,20). La donna è colei che genera la vita, tutto in lei richiama l’accoglienza e l’Evangelo ci pone di fronte a due situazioni estreme che negano questa realtà. Due condizioni di infertilità che devono richiamarci anche oggi a verificare la vita delle nostre Comunità e non solo di quelle ecclesiali. Quando una società non aiuta più a generare la vita in tutti i sensi e dimensioni, finisce per insterilirsi ripiegandosi su se stessa a difendere una identità povera di idee e incapace di guardare avanti aperta al futuro. Ugualmente per le Comunità cristiane: se non sono più in grado di “generare” alla fede perché invecchiate, chiuse in se stesse, ripiegate in una ritualità ripetitiva, incapaci di comprenderne e trasmetterne il significato profondo, di portare un bricciolo di misericordia verso tutti, facendosi carico della sofferenza di chi incontra, che cosa sono?
Diverse sono le due richieste di aiuto che arrivano a Gesù: una esplicita da parte del padre della ragazza, l’altra furtiva. Entrambi, nel loro bisogno, nella loro sofferenza, vanno da Gesù. Unico per entrambi è il bisogno di vita, diverso il linguaggio nel quale ciascuno lo esprime. In ambedue sta la forte coscienza della possibilità di Gesù di aiutare e risolvere la loro specifica situazione; coscienza che non hanno avuto i discepoli mentre attraversavano il mare di Galilea in tempesta e non hanno avuto i Farisei che si sono fermati fuori della casa emettendo sentenze categoriche sull’operato di Gesù, impedendo così allo Spirito di agire (il “peccato contro lo Spirito”).
Di Giairo colpisce il fatto che cade ai piedi di Gesù, letteralmente “si piega sotto”, si raggomitola all’ombra del Signore, si rifugia in lui cercando relazione e salvezza. Si fa piccolo quasi a scomparire come quella donna che cerca di toccare almeno il lembo del mantello pur essendo cosciente che lo avrebbe reso impuro. Il suo non è un gesto feticistico ma la ricerca di una possibilità di comunicazione che passa attraverso la tangibilità con l’umanità di cui il Figlio di Dio si è rivestito (simboleggiato dal suo mantello). Toccare la sua umanità significa la volontà di unire la propria vita alla sua che non trattiene per sé ma la dona a tutti e, diventandone parte, la fa diventare dono per tutti coloro che lo “toccano” acquisendo una vita che non muore.
Dal silenzio del sotterfugio Gesù porta la donna a vincere ogni timore e passare dal gesto alla parola fino a dirsi davanti a lui dicendogli “tutta la verità” (è l’unica volta che in Marco appare questo termine) e, da esclusa, emarginata e impura, viene ora ad essere inserita nello spazio dello scambio e delle relazioni sociali.
Con Giairo c’è invece un percorso inverso: dal trambusto, dal rumore si passa al silenzio. Solo nel silenzio si può discernere la verità della situazione: “la bambina non è morta, ma dorme” e la prende per mano diventando lui impuro per aver toccato un morto. Il silenzio imposto a tutti, padre compreso, vuole forse lasciare tutto lo spazio alla bambina di crescere, di espandersi, di diventare donna.
Da notare è che sia Giairo sia l’emorroissa non chiedono la guarigione, ma la salvezza dalla perdita della vita che sta scivolando via ed è questa che Gesù dona ad ambedue che chiama “figlie” con una ultima raccomandazione finale: “Datele da mangiare”. La vita va continuamente alimentata anche quella della fede (è in risposta a questa che Gesù “salva” le due vite e lo afferma chiaramente). Nutrire la propria realtà di credente per poter efficacemente svolgere il proprio compito è quanto capita anche ad Ezechiele (2,8) al quale Dio ha rivolto l’invito di aprire la bocca e mangiare “ciò che io ti do” cioè la sua Parola ed è a questo che si riferisce anche due dei momenti della Lectio Divina (la principale forma di preghiera cristiana che forse troppo lentamente sta tornando nella vita dei credenti): la “Manducatio” e Ruminatio”. Solo alimentando la propria vita con la Scrittura lentamente, con costanza si può esprimere la vita dell’Eterno che è in noi, fatta di continui gesti di accoglienza, d’amore e di misericordia.
(BiGio)