XIII Domenica PA - Mc 5,21-43

Due donne che non possono più generare chiedono non di essere guarite bensì la "salvezza"  e diventano "figlie" con il consiglio di darle da "mangiare". Ma che cosa?

Dopo la casa nella quale stare dentro con Gesù o scegliere di rimanere fuori rifiutando il suo modo di vivere e di fare, dopo la parabola del seminatore e della tempesta sedata, l’Evangelo di oggi ci pone difronte a due donne senza nome nelle quali perciò siamo chiamati ad identificarci. Una da dodici anni soffre di perdite di sangue che la rende impura e non più fertile, l’altra muore proprio quando, a 12 anni, è in età di poter sposarsi e diventare madre. Questo numero non è certamente un caso: dodici sono le tribù di Israele e la donna in tutta la letteratura profetica è immagine del popolo come sposa del Signore. Il sangue poi è il simbolo della vita che in quella donna via via se ne sta andando. 

In Genesi Adam quando dà un nome alla compagna che il Signore le ha messo a fianco, la chiama “Hava perché essa fu la madre di tutti i viventi.” (Gn 3,20). La donna è colei che genera la vita, tutto in lei richiama l’accoglienza e l’Evangelo ci pone di fronte a due situazioni estreme che negano questa realtà. Due condizioni di infertilità che devono richiamarci anche oggi a verificare la vita delle nostre Comunità e non solo di quelle ecclesiali. Quando una società non aiuta più a generare la vita in tutti i sensi e dimensioni, finisce per insterilirsi ripiegandosi su se stessa a difendere una identità povera di idee e incapace di guardare avanti aperta al futuro. Ugualmente per le Comunità cristiane: se non sono più in grado di “generare” alla fede perché invecchiate, chiuse in se stesse, ripiegate in una ritualità ripetitiva, incapaci di comprenderne e trasmetterne il significato profondo, di portare un bricciolo di misericordia verso tutti, facendosi carico della sofferenza di chi incontra, che cosa sono?

 

Diverse sono le due richieste di aiuto che arrivano a Gesù: una esplicita da parte del padre della ragazza, l’altra furtiva. Entrambi, nel loro bisogno, nella loro sofferenza, vanno da Gesù. Unico per entrambi è il bisogno di vita, diverso il linguaggio nel quale ciascuno lo esprime. In ambedue sta la forte coscienza della possibilità di Gesù di aiutare e risolvere la loro specifica situazione; coscienza che non hanno avuto i discepoli mentre attraversavano il mare di Galilea in tempesta e non hanno avuto i Farisei che si sono fermati fuori della casa emettendo sentenze categoriche sull’operato di Gesù, impedendo così allo Spirito di agire (il “peccato contro lo Spirito”).

Di Giairo colpisce il fatto che cade ai piedi di Gesù, letteralmente “si piega sotto”, si raggomitola all’ombra del Signore, si rifugia in lui cercando relazione e salvezza. Si fa piccolo quasi a scomparire come quella donna che cerca di toccare almeno il lembo del mantello pur essendo cosciente che lo avrebbe reso impuro. Il suo non è un gesto feticistico ma la ricerca di una possibilità di comunicazione che passa attraverso la tangibilità con l’umanità di cui il Figlio di Dio si è rivestito (simboleggiato dal suo mantello). Toccare la sua umanità significa la volontà di unire la propria vita alla sua che non trattiene per sé ma la dona a tutti e, diventandone parte, la fa diventare dono per tutti coloro che lo “toccano” acquisendo una vita che non muore.

Dal silenzio del sotterfugio Gesù porta la donna a vincere ogni timore e passare dal gesto alla parola fino a dirsi davanti a lui dicendogli “tutta la verità” (è l’unica volta che in Marco appare questo termine) e, da esclusa, emarginata e impura, viene ora ad essere inserita nello spazio dello scambio e delle relazioni sociali.

Con Giairo c’è invece un percorso inverso: dal trambusto, dal rumore si passa al silenzio. Solo nel silenzio si può discernere la verità della situazione: “la bambina non è morta, ma dorme” e la prende per mano diventando lui impuro per aver toccato un morto. Il silenzio imposto a tutti, padre compreso, vuole forse lasciare tutto lo spazio alla bambina di crescere, di espandersi, di diventare donna.

 

Da notare è che sia Giairo sia l’emorroissa non chiedono la guarigionema la salvezza dalla perdita della vita che sta scivolando via ed è questa che Gesù dona ad ambedue che chiama “figlie” con una ultima raccomandazione finale: “Datele da mangiare”. La vita va continuamente alimentata anche quella della fede (è in risposta a questa che Gesù “salva” le due vite e lo afferma chiaramente). Nutrire la propria realtà di credente per poter efficacemente svolgere il proprio compito è quanto capita anche ad Ezechiele (2,8) al quale Dio ha rivolto l’invito di aprire la bocca e mangiare “ciò che io ti do” cioè la sua Parola ed è a questo che si riferisce anche due dei momenti della Lectio Divina (la principale forma di preghiera cristiana che forse troppo lentamente sta tornando nella vita dei credenti): la “Manducatio” e Ruminatio”. Solo alimentando la propria vita con la Scrittura lentamente, con costanza si può esprimere la vita dell’Eterno che è in noi, fatta di continui gesti di accoglienza, d’amore e di misericordia. 

(BiGio)

 

 

Due vicende di sofferenza incrociano

Storie diverse, che pure stringono in una solidarietà che, se riconosciuta, diventa essa stessa via di guarigione. Perché fa bene accorgersi che la sofferenza non è nostro monopolio esclusivo, e che la nostra non vale più di quella dell’altro. Per guarire, come in questa pagina evangelica, è necessario che le storie s’intreccino, che le fragilità si riconoscano. C’è poi la fede che accomuna queste due storie e che rende possibile la guarigione. 


Due vicende di sofferenza incrociano i passi del rabbi di Nazaret: quella di una bambina di dodici anni in punto di morte, presentata a Gesù da suo padre, “uno dei capi della sinagoga di nome Giairo” (v. 22), e quella di una donna che “soffre di perdite di sangue da dodici anni”, che si avvicina a Gesù di soppiatto e ne tocca il mantello (v. 25). Due storie molto diverse che s’intrecciano e s’incastonano una nell’altra, in una narrazione che inizia con la fanciulla, prosegue con la donna, quindi torna ancora alla fanciulla. E poi c’è quel numero dodici che ricorre, non troppo casualmente, nelle due storie, che non può non sorprendere, se non altro per l’importanza che il narratore gli accorda, annotandolo. Un modo per dire che la sofferenza ha volti diversi, che inevitabilmente s’incrociano, rammentandoci che comune è la nostra esperienza di ferita e fragilità.

C’è poi un altro particolare che assimila le due storie, ed è quello della fede, che l’evangelista presenta come l’unica via per la quale il Maestro entra in quelle due vicende per immettervi la sua forza di guarigione. È la fede che Gesù riconosce nella donna che ha osato toccarlo: “Figlia, la tua fede ti ha salvata” (v. 34). È la fede in cui chiede a Giairo di perseverare, quando si sente dire che sua figlia è morta e che è ormai inutile continuare a importunare il Maestro: “Non temere, soltanto abbi fede!” (v. 36).

Una e molteplice è la sofferenza che avvilisce la vita di noi esseri umani, e che questa scena di storie incrociate vorrebbe indurci a considerare. Quel molteplice ci ricorda che non esiste solo la “mia” sofferenza. Quell’una, sta a indicare la solidarietà che l’umano soffrire dovrebbe indurci a considerare. Dodici anni di vita ora minacciata dalla morte o dodici anni di sofferenza che non sembra voler dare tregua… Storie diverse, che pure stringono in una solidarietà che, se riconosciuta, diventa essa stessa via di guarigione. Perché fa bene accorgersi che la sofferenza non è nostro monopolio esclusivo, e che la nostra non vale più di quella dell’altro. Per guarire, come in questa pagina evangelica, è necessario che le storie s’intreccino, che le fragilità si riconoscano.

C’è poi la fede che accomuna queste due storie e che rende possibile la guarigione. Una fede che anch’essa, come la sofferenza, si esprime in forme diverse. C’è la fede della donna che, ormai esasperata dai tanti tentativi falliti (v. 26), osa l’inaudito: lei, considerata impura per le perdite di sangue, osa toccare il rabbi, senza calcolare troppo le conseguenze. La sua fede è un grido e un tentativo estremo. E poi c’è la fede di Giairo, che chiede non per sé ma per la sua bambina, che va fiducioso da Gesù, ma che poi, davanti al precipitare degli eventi, vacilla e ha bisogno di essere incoraggiato. Una fede che qui non viene da chi è nel bisogno, perché chi ha bisogno a volte non ha neppure la forza di chiedere la guarigione. Viene invece da chi vede e sente anche sua quella sofferenza, mostrando come la fede agisce anche grazie alla solidarietà di una umanità che si fa carico del tutto.

Varie sono dunque le forme della sofferenza, che implorano guarigione, ma non troppo distanti da poter evitare di intrecciarsi. Varie sono le forme della fede, a volte anche maldestre, ma non troppo diverse tra loro, perché unico è il desiderio di vita che abita ogni essere umano.

(fr Sabino di Bose)

Né invisibili né irrilevanti. Per una lettura evangelica dell’impegno dei cattolici in politica

E se il problema della rilevanza e della visibilità politica dei cattolici non fosse che un falso (o malposto) problema?

Di recente Giuseppe Savagnone ha riflettuto sull’impegno dei cattolici italiani in politica in uno stimolante articolo apparso su Tuttavia.eu e intitolato I cattolici invisibili. A partire dall’attualità il professore siciliano ha inteso concentrare l’attenzione sull’odierna rilevanza e visibilità dell’opera dei credenti in politica. Le interessanti parole di Savagnone, al modo di una sponda che rilancia, consentono di approfondire ulteriormente il tema nel tentativo di offrire un quadro quanto più ricco e plurale sulla questione.
Probabilmente sul piano teorico pare che lo schema mentale del cattolicesimo politico italiano non abbia del tutto assimilato due grandi insegnamenti provenienti dal secolo scorso. ...

"Alla Chiesa italiana scrivi ..."

Che cosa significa e che cosa comporta, allora, anche per noi oggi esercitare la profezia in forza del battesimo, guardare alla realtà della nostra chiesa italiana che ha intrapreso il cammino sinodale e immaginare, sulla falsariga delle sette lettere alle sette chiese dell’Apocalisse, di indirizzarle una lettera che la richiami al coraggio della testimonianza?


Se guardi al futuro, e lo fai come Chiesa, devi avere coraggio. Un coraggio che non è prima di tutto forza di negazione. Il coraggio di negare non sempre è coraggio. Spesso è paura mascherata da coraggio. Guardare avanti con coraggio e senza paura vuol dire entrare nel gioco di luci dei segni dei tempi. Ospitare nel reale le cose nuove e mediante esse rileggere la tradizione in modo più ricco, più completo, più profondo. I tempi mandano segni a te, in quanto comunità di uomini e donne rigenerati dalla morte e dalla vita, dal dolore e dalla gioia. E i segni parlano nuovi linguaggi, che tu sei in grado di imparare, ma solo se avrai coraggio, se non ti lascerai paralizzare dalla paura. ...

L'intera lettera di Gabriella Perroni e Andrea Grillo è a questo link:

Ritorno del sacro e differenza cristiana

Continua nella Chiesa il dibattito sul "sacro" e sul suo necessario riconoscimento nella vita cristiana. Purtroppo, c'è un'ambiguità nella parola "sacro" e, di conseguenza, una molteplicità di comprensioni diverse.

Molti oggi parlano della necessità del ritorno del sacro nella liturgia, accusano la liturgia attuale dovuta alla riforma conciliare di essere priva del sacro e, dunque, le attribuiscono la responsabilità della loro incapacità di pregare e di mettersi in comunione con il Signore.
Ora, proprio per il perdurare di tante polemiche, ritorno su questo tema ricordando che se "sacro" significa alterità da riconoscere e da rispettare, allora possiamo affermare che il sacro è cosa buona. Ad esempio, la percezione che lo spazio liturgico è altro rispetto allo spazio della nostra vita ordinaria è cosa buona e necessaria. Così come tenere in mano il pane eucaristico è tenere in mano non pane ordinario ma il corpo del Signore. Gli esempi potrebbero essere molti, senza però far coincidere questa consapevolezza con la concezione degli esperti della religione che definiscono il sacro come ciò che appartiene a uno spazio separato, intangibile, inviolabile, che deve ispirare paura, timore e rispetto. 
Qui dobbiamo essere chiari e non aver paura di affermare la differenza cristiana ...

L'articolo di Enzo Bianchi continua a questo link:

https://www.alzogliocchiversoilcielo.com/2024/05/enzo-bianchi-ritorno-del-sacro-e.html

Nei Vangeli si gioca la libertà.

Nel suo nuovo libro, Gesù in cinque sensi, edito da Marsilio, padre Spadaro propone una serie di commenti ai Vangeli che si inseriscono in un lavoro più ampio, come fosse un intarsio, che spiega l’impegno del gesuita e la vicinanza al messaggio di papa Francesco sulla figura del figlio di Dio

L’introduzione comincia così: “Il Cristo è un ‘personaggio in cerca d’autore’. Gesù è ‘uno, nessuno, centomila’, molto più di Vitangelo Moscarda. E con lui si capisce meglio perché in realtà il protagonista di ogni storia possa fermarsi all’improvviso, sfondare la ‘quarta parete’, voltarsi verso di noi, e chiederci: E voi, chi dite che io sia?”».

La recensione di Riccardo Cristiano è a questo link:

David Grossman: “Il dolore è indicibile Israeliani e palestinesi meritano un futuro”

«Possiamo ritrovare il dialogo se abbiamo l’audacia della pace, di riconoscere l’altro. Gli ebrei che non sono mai stati maggioranza nei Paesi in cui hanno vissuto, ora in Israele devono avere la forza di includere le minoranze. Così ieri sera lo scrittore David Grossman intervistato dal direttore Maurizio Molinari, sul palco di Repubblicadelle Idee e Bologna.

Abbiamo prima assistito al dolore di Israele il 7 ottobre e poi al dolore di Gaza, alle vittime civili israeliane e a quelle palestinesi. Come dobbiamo guardare a questa tragedia?
«Per prima cosa dovremmo comprendere che è successo qualcosa di orribile, al di là della possibilità umana di sopportazione. Penso poi che dobbiamo essere precisi: con tutta la mia simpatia per quelli che sostengono la libertà della Palestina, fintanto che dire “Palestina libera” significa che Israele non deve esistere, gli israeliani non si sentiranno sicuri; e fintanto che gli israeliani non si sentiranno sicuri, i palestinesi non si sentiranno sicuri. Bisogna fare appello a un rapporto di buon vicinato e questo è molto più difficile».

C’è qualcosa che accomuna il dolore di Israele per il 7 ottobre e il dolore per le vittime civili di Gaza: è il senso della violazione delle proprie case. Quanto è importate la difesa del luogo cui si appartiene per costruire la convivenza?
«Gli ebrei, sia come singoli che come collettività, non si sono mai sentiti a casa loro nel mondo, ...

L'intera intervista a cura di Eleonora Capelli continua a questo link:

https://www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202406/240617grossmancapelli.pdf

Solo un cambio all’interno di Israele può sbloccare la trattativa

La ricorsa delle offerte, dei bluff, dei rilanci e dei rifiuti fra governo israeliano e Hamas fa pensare ad una commedia delle parti. Finché non cambierà la situazione interna ad Israele, un accordo appare un miraggio

Le guerre, si sa, finiscono quando una delle due parti prevale sull’altra. Può essere perché definitivamente sconfitta, perché la parte perdente vede la trattativa come l’ultimo modo per ottenere qualcosa, oppure perché chi sta prevalendo sente di poter capitalizzare quanto guadagnato sul campo.

Nessuna di queste condizioni sembra oggi soddisfatta nello scenario di Gaza, dove, piuttosto, spiccano i motivi perché il conflitto, anche non con la stessa forza distruttiva vista nelle prime settimane, prosegua.

Motivi, che, sostanzialmente, si riassumono nella necessità delle due parti a proseguire lo scontro, pena la scomparsa politica. Da un lato, anche gli ultimi sondaggi paiono condannare in modo inderogabile Benjamin Netanyahu. ...


La riflessione di David Assael continua a questo link:

https://www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202405/240508assael.pdf

Un mondo di persone in fuga

Conflitti e insicurezza generano un numero record di sfollati. Ma ad accoglierli sono i paesi più poveri mentre quelli ricchi mancano di affrontare le cause profonde delle migrazioni forzate.

Mai prima d’ora c’erano stati tanti sfollati. Una persona ogni 69 nel mondo è in fuga da guerre, violenza o persecuzioni e ogni minuto 20 persone sono costrette ad abbandonare le proprie case.  In tutto sono 120 milioni, più del doppio della popolazione italiana, circa 1,5% della popolazione mondiale. Se formassero un paese, sarebbe il tredicesimo più popoloso al mondo, subito dopo il Giappone. Circa la metà sono bambini. A far ingrossare le fila di quest’umanità in fuga – tra cui figurano 43 milioni di rifugiati – sono i conflitti sempre più diffusi, la crisi climatica, l’insicurezza alimentare ed energetica. Tutti fattori che negli ultimi anni hanno costretto un numero sempre crescente di persone ad abbandonare le proprie case o il proprio paese alla ricerca di sicurezza e protezione. A riferirlo è il rapporto Global Trends 2024 diffuso da Unhcr in occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato, che si celebra ogni anno il 20 giugno. Secondo i dati, nel 2024 il 73% di tutti i rifugiati al mondo provengono da soli cinque paesi: Afghanistan (6,4 milioni), Siria (6,4 milioni), Venezuela (6,1 milioni), Ucraina (6 milioni) e Palestina (6 milioni).  ...

L'intero servizio dell'ispirazione è a questo link:

Israele - Palestina: un po' di storia per capire l'oggi

La Risoluzione 181/1947 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha operato una scelta che ancora oggi è controversa, ovvero quella di dividere il territorio palestinese (definito in base al mandato della Società delle Nazioni al Regno Unito) tra i due popoli che in quel momento lo abitavano, quello arabo-palestinese e quello israeliano.

Altre soluzioni erano possibili: stato bi-nazionale o consociativo, sul modello del Libano, stato federale o confederale con una cantonizzazione spinta sul modello svizzero, oppure il permanere di una amministrazione fiduciaria dell’ONU con ampia autonomia lasciata ai territori, ecc.

Motivazioni politiche profonde (la forza del movimento sionista, le spinte del nazionalismo arabo, e naturalmente il contesto bellico e post-bellico), unite a contingenze internazionali (un effimero allineamento tra USA e URSS) hanno condotto le Nazioni Unite – fortemente condizionate dagli USA di Truman– a preferire la scelta dei “due popoli – due Stati”.

La Gran Bretagna, dopo avere promesso (con Balfour, nel 1917) un “focolare” (“home”, cioè, al di fuori di metafora, uno Stato) ebraico ai sionisti, negli anni del mandato internazionale sulla Palestina (1922-1948) non aveva saputo creare i presupposti per uno Stato unitario, bilanciando e portando a sintesi le esigenze degli arabi e degli ebrei, e aveva scontentato entrambi i fronti. Del resto, in nessuno degli Stati mediorientali usciti dalla disgregazione dell’impero Ottomano e passati attraverso il sistema dei mandati (Libano, Siria, Iraq, Giordania…) si sono raggiunti risultati soddisfacenti, e le conseguenze di quel fallimento sono visibili fino ai giorni nostri....

L'analisi storica di Paolo De Stefani si sviluppa a questo link:

https://www.viandanti.org/website/israele-palestina-un-po-di-storia-per-capire/

Ogni giorno muoiono 2mila bambini a causa dell’inquinamento atmosferico: lo studio shock

 Oltre 700.000 decessi di bambini sotto ai 5 anni nel solo 2021: sono questi gli effetti devastanti dell’inquinamento atmosferico sui più piccoli che sono anche i più vulnerabile


Un nuovo rapporto dell’Health Effects Institute (HEI) rivela che l’inquinamento atmosferico ha causato 8,1 milioni di decessi a livello globale nel 2021, diventando il secondo principale fattore di rischio per la morte, superato solo dalla malnutrizione. Questo rapporto, noto come State of Global Air (SoGA), sottolinea l’impatto crescente dell’inquinamento sulla salute umana, con gravi ripercussioni soprattutto sui bambini sotto i cinque anni. Infatti, nel 2021, oltre 700.000 decessi di bambini sotto i cinque anni sono stati collegati all’esposizione all’inquinamento atmosferico, di cui 500.000 attribuiti all’inquinamento domestico causato dalla cottura al chiuso con combustibili inquinanti, particolarmente in Africa e Asia.

Dopo la malnutrizione, lo smog è il secondo fattore di mortalità per i bambini al di sotto dei cinque anni: in media, ogni giorno ne muoiono quasi duemila per l’esposizione all’aria inquinata, in particolare in ...

L'articolo di Rebecca Manzi continua a questo link:

https://www.greenme.it/ambiente/ogni-giorno-muoiono-2mila-bambini-inquinamento-atmosferico/

«Dio mandò suo Figlio, nato da donna» Smaschilizzare chiede una conversione

La fede di Israele fonda la maschilizzazione sulla circoncisione. Ma Paolo ribalta questa tradizione: ciò che conta è essere una nuova creatura. E così fa anche l’evangelista Luca.

 

Se il thémelion (il “fondamento”) della Chiesa è Gesù Cristo, allora la Chiesa nasce da una donna poiché in Lei è la cava, la sua cascata divina alla vita incarnata. Paolo non dice: “nato da uomo” ma: «Dio mandò il suo Figlio, nato da donna» ( Gal 4,4). Ciò nonostante nell'XI Concilio di Toledo si stabilì che il Figlio fosse generato e messo al mondo de utero patris pur di evitarne l’origine femminile. Del resto la maschilizzazione della nascita è presente prima del cristianesimo nel mondo antico del Mediterraneo. Un caso eclatante è quello della dea greca «dagli occhi verde azzurri», Atena, che, forse proprio per la sua sapienza, nacque direttamente dalla testa di Zeus, il dio padre che la partorì dopo aver inghiottito Metis, la sua prima moglie.

Anche Paolo, pertanto, che conosceva la cultura greca avrebbe potuto postulare che il Figlio fosse nato dalla mente – o dall’utero - del Padre. E un uomo come lui che vantava la piena identità ebraica (2Cor 11,22: «Sono Ebrei? Anch'io! Sono Israeliti? Anch'io! Sono stirpe di Abramo? Anch'io!») avrebbe potuto difendere – come facevano i cosiddetti “giudaizzanti” – la necessità di far circoncidere quelli che, tra i gentili, venivano alla fede cristiana. È, infatti, proprio sulla circoncisione che si fonda la “maschilizzazione” della fede di Israele. Innanzitutto perché è un taglio che spetta, giocoforza, solo ai maschi, e poi per il suo valore teologico biblico: chi è circonciso appartiene al popolo eletto dei figli di Abramo.

La circoncisione è un segno escludente che preclude non solo ai gentili ma prima ancora alle donne ebree un rapporto immediato con Dio...

L'intervento di Rosanna Virgili continua a questo link:

https://www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202405/240514virgili.pdf

Domenica XII PA - Mc 4,35-41

Un rimprovero diretto ed aspro. Una reazione spiazzante: con due rapide parole calma gli elementi naturali scatenati e poi, rivolgendosi ai discepoli pone due altrettanto secche domande: “Perché avete paura?” e “Non avete ancora fede?”.



Al termine di una faticosa giornata interamente impiegata da Gesù per spiegare nei suoi diversi aspetti che cosa assomigli il Regno dei cieli, invece di andare a riposare invita i discepoli a portarlo sull’altra riva del lago, quella non ebraica, quella pagana e, nella traversata incontrano molte difficoltà ed una tempesta che sta per travolgere la barca.

Il racconto di Marco evidentemente non è una cronaca perché è improbabile che si mettano ad attraversare il lago di notte, come lo è altrettanto che scoppi una improvvisa tempesta che esperti pescatori non riescano a rendersene in conto in tempo per porsi al riparo. Inoltre Gesù dorme “a poppa” che è il posto del timoniere e per di più con un comodo cuscino sotto la testa.

È chiaramente una parabola composta dall’Evangelista intessuta di immagini bibliche il cui significato è abbastanza conosciuto ed esplicito che può riguardare il percorso dell’intera vita di ciascun uomo, assieme a quella delle vicissitudini di ogni Comunità cristiana.

È quasi come se Gesù volesse provare a vedere cosa gli apostoli avrebbero saputo fare senza di lui o meglio dopo di lui, considerando che il termine greco usato per dire il “cuscino” sul quale dormiva, era il guanciale che veniva posto sotto la testa di un defunto. Tra l’altro nella Scrittura spesso il “sonno” è una immagine usata per indicare la morte. Le citazioni potrebbero essere molte.

 

Un particolare che normalmente sfugge è che, al fatto che gli Apostoli lo prendono “così come era nella loro barca”, Marco annota che “c’erano anche altre barche con lui”. Poi l’attenzione si concentra su quella degli Apostoli. Ora, se fin dai primissimi tempi la barca è l’immagine della Chiesa, lo è anche di tutte le Comunità le nostre comprese. Non è un caso che le volte delle navate centrali delle chiese spesso sono “a carena di nave”.  Quello di cui Marco desidera farci prendere coscienza, è che ogni nostra Comunità naviga nell’oscurità di quella coltre d’acque che coprivano la terra prima della creazione, simbolo delle forze caotiche che impediscono la vita. 

Quindi c’è una specie di flotta che naviga in queste acque avverse di notte per recarsi sull’altra riva che, nel frangente del racconto di questo Evangelo, è la riva pagana dove transitava la “Via del Mare” che congiungeva la costa mediterranea a Babilonia e sulla quale passavano tutte le genti pagane. A queste i discepoli sono invitati ed inviati ad annunciare la lieta notizia: le Comunità hanno senso solo quando, come continuamente invita papa Francesco, sono “in uscita”. Non è un compito facile; non lo è mai stato fin dall’inizio e il racconto degli Atti lo fa trasparire chiaramente. Prendere le misure con il compito affidato non è mai stato e non è semplice. 

Anche nei nostri giorni le Chiese sono attraversate da temperie di non facile soluzione nella loro ricerca di interpretare per l’oggi, incarnandolo, il messaggio di Gesù. È esperienza di tutti come ogni Comunità che deve fare i conti quotidianamente con il cosa e il come svolgere il suo compito all’interno dei conflitti, contraddizioni ed ostacoli che si incontra nel cammino.

 

Nella Scrittura c’è un altro personaggio che, mentre infuria la tempesta e la barca sta per affondare, si mette a dormire lasciando che siano gli altri a togliersi dai pasticci: Giona. Sia quest’ultimo, sia Gesù sembrano quasi sparire dalla scena mentre tra gli altri che si stanno dando da fare, sale una tensione pronta a scoppiare. La storia di Giona la conosciamo e le acque si calmano quando lui si fa gettare in mezzo alle onde. In Marco, l’ansia e la fatica esplodono in termini conflittuali e, a differenza che negli altri sinottici che narrano il fatto, il rimprovero è diretto ed aspro: “Non ti importa che siamo perduti?”.

 

La reazione di Gesù è spiazzante: con due rapide parole calma gli elementi naturali scatenati e poi, rivolgendosi ai discepoli pone due altrettanto secche domande: “Perché avete paura?” e “Non avete ancora fede?”.

L’insegnamento che ci viene quando entriamo in un conflitto di qualsiasi genere e ambito si svolga dall’ecclesiale, al familiare, all’ambiente di lavoro, è di chiedersene la ragione e di capire cosa esprimono le emozioni che ci prendono. Queste ci raccontano sempre qualcosa di noi che ci è ancora sconosciuto perché le situazioni possono essere simili ma mai uguali. È anche facile percepire il Signore come assente e salire la nostra paura di affondare, di non riuscire a trovare soluzioni se non che lo scontro frontale, contando solo sulle nostre forze: è mancanza di fede. È in dimenticare che lui è sulla nostra barca, al nostro fianco “tutti i giorni fino alla fine dei tempi”.

(BiGio)

Il vento cessò (Marco 4, 35-41)

I missionari cristiani arrivarono in molti paesi proclamando un vangelo rivestito della cultura e condizionato dagli interessi dei loro paesi d'origine. Ora la sfida è riconoscere il vangelo già presente nella vita dei popoli e arricchirlo con la rivelazione di Gesù, avendo cura che il processo di decolonizzazione non porti a nuove forme di colonizzazione.

 


Una prima lettura di questo vangelo potrebbe limitarsi a considerare che i discepoli di Gesù si trovavano in un momento molto difficile, mentre in barca attraversavano il mare in mezzo a una forte burrasca, con il pericolo di affondare. Ricorsero a Gesù ed egli li salvò. L'applicazione immediata che si fa è che dobbiamo chiedere l'aiuto del Signore nelle difficoltà della vita.

Ma il testo è molto più ricco e complesso. Gesù aveva annunciato, in parabole, alcune caratteristiche del regno di Dio, il progetto di un nuovo modo di vivere offerto a tutti i popoli. Per questo propone ai suoi discepoli: "Passiamo all'altra riva". È l'invito alla missione, a superare il mare della separazione e del privilegio, ad andare a condividere la Buona Notizia in terre pagane, con popoli e culture differenti. 

I discepoli accettano l'invito, ma essi stessi prendono l'iniziativa, secondo i loro criteri di separazione e discriminazione nazionalistica: "Congedata la folla, lo presero con sé, così com'era, nella barca". Quasi sequestrano Gesù, e non accettano la collaborazione di nessuno: "C'erano anche altre barche con lui".

Una missione così concepita a Gesù non interessa, egli è come assente, non partecipa, si sente escluso: "Se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva". 

Questa missione non può avere successo. Le si oppongono la mentalità conquistatrice dei discepoli e la resistenza dei popoli che non accettano questa forma di dominazione e colonizzazione religiosa: "Ci fu una grande tempesta di vento".

Di fronte al fallimento di tutti i loro sforzi missionari e al pericolo che scompaia la comunità dei discepoli, “le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena”, essi cercano Gesù, sorpresi della sua mancanza di sostegno, e lo svegliano spaventati: "Maestro, non t'importa che siamo perduti?". Gesù risponde alla loro chiamata: "Si destò, minacciò il vento e disse al mare: Taci, calmati!". È il linguaggio e l'autorità con cui scacciava i demoni, gli spiriti maligni che legavano i posseduti. La strada della missione si apre quando i discepoli si liberano dalla loro mentalità e si fanno portatori di un messaggio di liberazione, uguaglianza e riconciliazione: "Il vento cessò e ci fu grande bonaccia".

Marco ricorda il rimprovero di Gesù ai discepoli, perché è un rimprovero utile anche alla sua comunità che sta vivendo un momento di gravissima crisi, dovuta alle persecuzioni e alle diserzioni: "Perché avete paura? Non avete ancora fede?". Gesù chiama i discepoli a rinnovare la loro adesione a lui e al progetto del regno di Dio, a cambiare il loro modo di pensare e ad aprirsi ad un orizzonte universale, affrontando senza timore con lui le difficoltà della missione e la crisi della comunità.

La reazione dei discepoli è di sconcerto. Ancora non lo conoscono bene. Passano dalla paura delle difficoltà alla paura di Gesù stesso: "Furono presi da grande timore". La domanda che si pongono: "Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?", non è solo stupore. Si rendono conto che l'azione di Gesù non corrisponde ai loro meschini criteri e temono il suo giudizio. Sarà il dono della Pentecoste che li libererà dalla paura e li lancerà sulle strade del mondo, per continuare a riconoscere con fiducia e umiltà i semi del Regno, già presenti in tutti i popoli, e arricchirli con il progetto di Gesù.

(Bernardino Zanella)

Neve Shalom - Wat Al-Salam. La loro Scuola per la pace del 2023 in numeri

 Qui vi riportiamo una parte della lettera di Roi Silberberg, il direttore della Scuola per la Pace che introduce il report dell'anno 2023

Stiamo vivendo il periodo più sfidante di sempre per quanto riguarda gli attivisti per la pace nella regione. La combinazione del “colpo di stato” giudiziario e della guerra esplosa il 7 ottobre ha creato un forte scisma in Israele nella vita di tutti i giorni. (…) Gli eventi recenti hanno reso palesemente chiaro che lo sfondo delle relazioni collettive tra ebrei e palestinesi avrà un peso sempre maggiore di ogni cooperazione locale. 

È estremamente importante che accettiamo il fatto preoccupante che, sotto questo regime, la visione di una società condivisa, basata su interessi condivisi fondati in sfide concrete e locali non è sostenibile nel lungo periodo. Alla Scuola per la pace resistiamo, poiché sappiamo che il non prendere posizione può portare alla normalizzazione dell’oppressione palestinese a all’accettazione di uno status quo segnato dal sangue. 

 

Inoltre, l’esperienza ci ha mostrato che le relazioni ebraico-palestinesi devono essere concepite riconoscendo che il popolo palestinese è uno e non isole frammentate (Gaza, la Cisgiordania, i Palestinesi cittadini di Israele, i Palestinesi rifugiati). Il nostro lavoro non è essere un palliativo ma un catalizzatore di una realtà politica modernizzata. 

 

Quest’anno abbiamo allargato la nostra sfera d’influenza attraverso la cooperazione con organizzazioni politiche ed educative simili a noi sia all’interno sia all’esterno di Israele. Queste collaborazioni ci hanno permesso di raggiungere un pubblico più vasto e di formare l’opinione pubblica, adottare nuove prospettive e strumenti e migliorare le nostre attività. 

Il 2023 e questi mesi del 2024 sono stati caratterizzati da crisi. Il “colpo di stato” giudiziario e la guerra hanno riesumato i demoni nascosti sotto la nostra coscienza collettiva e la Scuola per la pace ha assunto un ruolo di leader nell’affrontarli. 

 

Le attività raccontate nel Report dimostrano la nostra abilità nel navigare attraverso eventi turbolenti in tempo reale con sincerità e creatività. La nostra forza deriva dal nostro approccio al dialogo: mettiamo i temi sul tavolo con sincerità, senza normalizzarli o sminuire l’influenza dell’oppressione. In questo modo, evitiamo di indulgere nelle illusioni, assumiamo la complessità degli eventi mentre si realizzano, capiamo i motivi sottostanti, e manteniamo la nostra fiducia nell’“altro”. 

 

Siamo particolarmente orgogliosi dei nostri diplomati, perché continuano a spingere per il cambiamento sviluppando progetti davanti a situazioni travolgenti, alla volontà di mettere tacere e addirittura alla persecuzione da parte dello Stato e della società. 

Siamo orgogliosi della comunità che abbiamo sviluppato e che continueremo a sostenere e guidare attraverso questi momenti difficili – per il bene loro e quello della nostra società.

 

Il report è a questo link:


https://drive.google.com/file/d/1zbeftykK_7o1QSQACAeBWMFdaxf8GYWg/view?pli=1


 

Ministerialità della coppia. Ma cosa vuol dire?

Quando poniamo la questione della ministerialità degli sposi ci interroghiamo sul valore e sul significato per la Chiesa della decisione di due persone di costituirsi come un noi e aprirsi alla costituzione di una famiglia. Bisogna però distinguere.

Proviamo allora a puntualizzare le diverse ministerialità, per cogliere poi lo specifico degli sposi, notando come una sola persona può vivere più ministeri, per arrivare poi a concludere come tutto ciò sia possibile solo dentro l’intreccio dei legami ecclesiali che segnano l’identità e il vissuto di ciascuno. 

L'articolo di Simona Segoloni Ruta è a questo link:


Se l’esaurimento delle parrocchie fosse provvidenziale?

Di fronte alla progressiva consunzione della vita cristiana nelle forme stanche che trasciniamo da anni, proviamo a cambiare prospettiva e domandarci se non sia lo Spirito a volere e ad accompagnare questa crisi (salutare?)


Mentre si accumulano gli studi sul crollo della partecipazione attiva alla vita comunitaria tradizionale in Italia, mentre si registra ormai con sereno pessimismo la sparizione di giovani e giovani-adulti dalle comunità, mentre i sacerdoti lasciano il ministero o si ammalano di burnout (o chiedono sempre più spesso un anno sabbatico per tirare il fiato), mentre i matrimoni religiosi sono in caduta libera e le vocazioni alla vita consacrata languiscono, sembra che la ‘barca’ della parrocchia ­— che si presenta ancora come il fulcro della vita cristiana di molti—navighi di tutto incurante, a tutto impermeabile, con gli stessi ritmi, le stesse iniziative, le stesse modalità degli anni ’80-’90.
Peraltro, gioverà ricordare che associazioni e movimenti non stanno meglio: è l’età post-cristiana, o forse, meglio a-cristiana. Ma la parrocchia rimane ancora l’architrave su cui si regge la chiesa ed è la realtà che necessiterebbe primariamente di cure. Ma ciò non accade....

La riflessione di Sergio Di Benedetto continua a questo link:

"Comunità": Siamo fatti per vivere con gli altri

Già Aristotele diceva che «l’uomo è per natura un essere sociale». Cresciamo e ci formiamo attraverso il dialogo, lo scambio di opinioni, la condivisione, le relazioni, le attività, il lavoro. Siamo fatti per vivere in famiglia, in gruppo, in comunità. Durante la pandemia del Covid abbiamo sofferto la solitudine, abbiamo capito quanto sono importanti le relazioni con gli altri e ne abbiamo sentito profondamente il bisogno.


Dio ha creato l’essere umano a propria immagine e somiglianza, lo ha creato manifestandosi come un Dio d’Amore, un Dio Trinità, un Dio di comunione, che ha chiamato l’uomo a entrare in rapporto con lui e alla comunione interpersonale. La vocazione e la vita dell’uomo è di vivere in comunione con Dio e con gli uomini, fratelli e sorelle. Gesù ha chiamato un gruppo di uomini affinché stessero con Lui e li ha poi inviati nel mondo per annunciare il Vangelo. Li ha innanzitutto chiamati per stare insieme. Il Salmo 133 è dedicato alla vita fraterna e canta: «Guarda quanto è bello che i fratelli vivano insieme! … là il Signore dona la benedizione e la vita per sempre»

L’incontro con l’altro rende feconda la vita, offre un continuo imparare nel confronto con la diversità. Quando parliamo di comunità cristiana pensiamo alla parrocchia, a un’assemblea liturgica, a un gruppo di giovani o di coppie, ai gruppi della catechesi: tutte queste realtà, e tante altre, sono delle comunità, porzioni di Chiesa. 

Quando guardo la vita di alcune comunità parrocchiali mi chiedo ...


La riflessione di Flavio Facchin continua a questo link:

https://www.procuramissioniomi.eu/parole-di-missione-comunita/

La lotta di Giacobbe, un enigma attraverso i secoli

Delle tante pagine bibliche che hanno, nei secoli, dato spunto a svariate letture e interpretazioni – sul piano religioso, letterario, filosofico, artistico –, una delle più famose ed enigmatiche, com’è noto, è il passo del libro della Genesi (32. 23-33) in cui Giacobbe, in procinto di affrontare il fratello Esaù, nell’attraversare il fiume Iabbòq, in un luogo che poi sarebbe stato detto Panuel, incontra uno sconosciuto, col quale ingaggia una lunga, singolare lotta, che dura l’intera notte, fino all’alba. È davvero difficile che un combattimento – se di questo si tratta veramente – duri tanto a lungo.  Ma è davvero uno scontro, un duello? O forse un dialogo, o, addirittura, una “danza”?

Da questo affascinante e inquietante passo Roberto Esposito – i cui libri sono tradotti in diverse lingue e pubblicati in molti Paesi – trae spunto per una ricognizione di grande interesse e suggestione, che, al di là dell’indubbia difficoltà e problematicità del tema trattato, riuscirà certamente a catturare l’attenzione di lettori di diversa estrazione, formazione e livello culturale. Il misterioso episodio biblico, nota Esposito in I volti dell’Avversario. L’enigma della lotta con l’Angelo (Einaudi, 2014) «fa letteralmente irruzione nel ciclo della Genesi, determinando una sospensione, una frattura inaspettata».

L'intera ricezione curata da a cura di Francesco Lucrezi, docente di Diritti antichi all’Università di Salerno è a questo link:

Congo, il mistero del tentato golpe e il popolo alla fame

Il missionario comboniano Eliseo Tacchella segnala quanto accade nel Nord Kivu (Repubblica Democratica del Congo) e spiega perché la gente non si fida della dirigenza politica. Un Paese che fa i conti con povertà, violenza, guerriglia armata, scorribande militari del Ruanda e colonialismo economico cinese

La Repubblica Democratica del Congo raccoglie i cocci dell’ennesimo terremoto politico dopo il recente tentato golpe, subito sventato dall’esercito. E torna alla consueta routine. Che però da queste parti significa “sofferenza, guerra e condizioni davvero misere, soprattutto a Est del Paese”. Una crisi permanente dovuta al conflitto neanche più tanto strisciante con il Ruanda, “Paese che finanzia le milizie armate dell’Est, rendendo la vita impossibile a milioni di persone”. Così commenta a Popoli e Missione padre Eliseo Tacchella, comboniano, per molti anni nel Paese africano, oggi rientrato in Italia.

Israele: Rapporto su violenze anticristiane, Patton (Custode), “preoccupa saldatura tra estremismo politico e religioso”

Nel 2023 ci sono stati 11 casi di molestie verbali, sette attacchi violenti, 32 attacchi a proprietà ecclesiastiche, una profanazione di un cimitero e 30 casi segnalati di sputi contro o verso il clero e i pellegrini. È quanto emerge da un Rapporto dell'ong ebraica  Rossing Center di Gerusalemme, dedicato agli attacchi ai cristiani in Israele e a Gerusalemme Est. Sul tema il Sir ha intervistato il Custode di Terra Santa, padre Francesco Patton.


I religiosi ascoltati hanno denunciato di aver ricevuto sputi anche più volte alla settimana. È quanto emerge da un Rapporto del Rossing Center di Gerusalemme, ong ebraica impegnata in particolare nel dialogo interreligioso, dedicato agli attacchi ai cristiani in Israele e a Gerusalemme Est.

L'intervista raccolta da Daniele Rocci continua a questo link:

Etiopia, i drammi della guerra in Tigray e l'aiuto per ridare salute e dignità

Aldo Morrone, direttore dell'Istituto Internazionale Scienze Mediche, Antropologiche e Sociali (IISMAS), è rientrato dal Corno d'Africa, testimone dei traumi del conflitto, degli abusi sulle donne, della distruzione di infrastrutture di base. Parla della tenacia e dedizione con cui continua a operare l'ospedale che sostiene al confine con l'Eritrea: "Sentirsi toccati nelle piaghe è un modo per avere una immediata comunicazione. Sono loro che mi insegnano la solidarietà vera"


Un Paese meraviglioso con una popolazione che, sebbene ridotta allo stremo, riesce ancora a dare testimonianza di una solidarietà fortissima che ha molto da insegnare. Così sintetizza la situazione che attualmente vive l'Etiopia Aldo Morrone, direttore scientifico dell'Istituto Internazionale Scienze Mediche, Antropologiche e Sociali (IISMAS) rientrato due settimane fa da una delle sue periodiche visite nello Stato del Corno d'Africa. Esperto di patologie tropicali e malattie della povertà, si occupa di medicina transculturale, con una spiccata attenzione sulla salute dei migranti e delle fasce a rischio di emarginazione sociale. Attraverso i suoi occhi, il racconto delle conseguenze fisiche, psicologiche, economiche e infrastrutturali di una guerra, in Tigray, fratricida.

Il racconto raccolto da Antonella Palermo continua a questo link: