Per non far diventare le parole della Consacrazione un rito magico e necessario comprendere lo spessore di due parole: "Alleanza" e "Memoriale" e l'invito di Gesù "Fate questo in memoria di me" che, parafrasato, significa: Fate della vostra vita quello che io ho fatto della mia, pane spezzato, vino condiviso
Questa seconda festa posta alla ripresa di un cammino dopo il periodo pasquale, desidera consegnare nelle nostre mani il nocciolo della nostra fede come una bisaccia dalla quale attingere nel nostro andare personale e comunitario.
Si è talmente abituati alle parole centrali della preghiera eucaristica che ci si sorvola sopra dandole per scontate, quasi non le si ascolta più, le si sentono solamente. Nel vecchio rito preconciliare, per richiamare l’attenzione dei presenti impegnati nelle loro pratiche di pietà, veniva suonata una campanella all’inizio e alla fine di ogni parte della “consacrazione” per avvisare che bisognava lasciare quello che si stava facendo e concentrarsi su quanto avveniva sull’altare che si intuiva solamente dall’inchinarsi del prete a pronunciare sottovoce delle parole latine, dall’alzare il pane e il calice appena consacrati perché tutti potessero vederli e dalle ripetute rituali genuflessioni.
Oggi invece il rito coinvolge i presenti ed è l’Assemblea che celebra l’Eucaristia presieduta dal prete, ma l’impressione è che ancora non ce ne sia piena coscienza. Si dovrebbe avere la pazienza di far comprendere come ogni parola ha un suo preciso significato non solo simbolico ma reale.
Iniziamo soffermandoci sulla parola “Alleanza”. Gesù offrendo il calice con il vino dice: “Questo è il mio sangue dell’Alleanza che è versato per le moltitudini” e non “molti”: il termine greco rinvia a una moltitudine inclusiva senza distinzioni e senza discriminazioni. Questo viene sottolineato anche da due termini che non sono banalmente sinonimi: Gesù benedice il pane (verbo prettamente ebraico) e rende grazie sul vino (tipico termine del paganesimo); vale a dire che l’Eucaristia non divide, ma unisce tra di loro realtà completamente diverse. Il sangue nell’antropologia biblica significa la vita, quella di Gesù, il parteciparvi esprime l’accettare di entrarvi in relazione condividendola fino in fondo. L’Alleanza non è allora un rito o un simbolo, ma l’instaurarsi di una relazione intima tra coloro che vi partecipano attraverso quella con il Signore.
Gesù lo aveva anticipato: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui” (Gv 6, 56) e S. Paolo scrive: “Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all'unico pane” (1 Cor 10, 17).
Nella liturgia eucaristica di alcune Comunità, in riferimento a questo versetto, viene declamato dall’Assemblea: “Come molti erano i chicchi di grano sparsi nei campi ora formano quest’unico pane, così noi diventiamo un solo corpo partecipando al pane unico”.
Non ce ne rendiamo conto ma anche nel nostro linguaggio comune quando diciamo che “si è andati a fare la Comunione” si intende che partecipandovi diventiamo una cosa sola con Cristo e, in Lui, con tutti i partecipanti a quell’Assemblea. Questo significa quell’Alleanza e ora si dovrebbe comprendere perché una volta si diceva che non andando a Messa la Domenica, si faceva “peccato mortale” cioè ci si trovava fuori, ci si autoescludeva da quell’Alleanza che ci rende Comunità cristiana. Il perché dovrebbe ora saltare agli occhi: non la si era rinnovata e il suo ritmo settimanale affonda le radici nel Sabato ebraico dedicato a Dio che, per noi, è diventato “il primo giorno della settimana”.
Non è diverso nelle Comunità Ebraiche dove la “memoria” (altro termine che il prete pronuncia al termine della Consacrazione”: “Celebrando il memoriale della morte e risurrezione…”) dell’Alleanza celebrata sul Sinài che li ha resi il Popolo del Signore, non è un semplice banale “ricordo” ma il renderla attuale rinnovandola. Gesù l’assume risignificandola, nel senso che l’arricchisce, non annullandola perché significherebbe rinunciare a quel passaggio dalla schiavitù al servizio che è opera del Padre per Israele e, attraverso quest’ultimo, per l’intera creazione. Vale a dire da una esistenza sotto il segno del peccato (il mondo “vecchio”) a una esistenza rinnovata dallo Spirito (il mondo “nuovo”, il Regno di Dio).
Gli ebrei alla vigilia della Pasqua, seguendo le indicazioni del Deuteronomio (16,4) eliminano ogni traccia di lievito dalle loro case che simboleggia tutto ciò che è male, che è schiavitù e San Paolo ci invita con forza: “Togliete da voi il lievito vecchio per essere pasta nuova, perché come cristiani siete azzimi, siete puri” (1Cor 5,7-8).
Un’ultima importante sottolineatura. L’istituzione dell’Eucaristia in Luca e in Paolo viene conclusa con un normalmente trascurato “Fate questo in memoria di me” che, parafrasando, può essere tradotto così: “Fate della vostra vita quello che io ho fatto della mia, pane spezzato, vino condiviso”. Se non si comprende questo tutte le parole precedenti corrono il pericolo di diventare una formula “magica” incomprensibile.
(BiGio)
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