Storie diverse, che pure stringono in una solidarietà che, se riconosciuta, diventa essa stessa via di guarigione. Perché fa bene accorgersi che la sofferenza non è nostro monopolio esclusivo, e che la nostra non vale più di quella dell’altro. Per guarire, come in questa pagina evangelica, è necessario che le storie s’intreccino, che le fragilità si riconoscano. C’è poi la fede che accomuna queste due storie e che rende possibile la guarigione.
Due vicende di sofferenza incrociano i passi del rabbi di Nazaret: quella di una bambina di dodici anni in punto di morte, presentata a Gesù da suo padre, “uno dei capi della sinagoga di nome Giairo” (v. 22), e quella di una donna che “soffre di perdite di sangue da dodici anni”, che si avvicina a Gesù di soppiatto e ne tocca il mantello (v. 25). Due storie molto diverse che s’intrecciano e s’incastonano una nell’altra, in una narrazione che inizia con la fanciulla, prosegue con la donna, quindi torna ancora alla fanciulla. E poi c’è quel numero dodici che ricorre, non troppo casualmente, nelle due storie, che non può non sorprendere, se non altro per l’importanza che il narratore gli accorda, annotandolo. Un modo per dire che la sofferenza ha volti diversi, che inevitabilmente s’incrociano, rammentandoci che comune è la nostra esperienza di ferita e fragilità.
C’è poi un altro particolare che assimila le due storie, ed è quello della fede, che l’evangelista presenta come l’unica via per la quale il Maestro entra in quelle due vicende per immettervi la sua forza di guarigione. È la fede che Gesù riconosce nella donna che ha osato toccarlo: “Figlia, la tua fede ti ha salvata” (v. 34). È la fede in cui chiede a Giairo di perseverare, quando si sente dire che sua figlia è morta e che è ormai inutile continuare a importunare il Maestro: “Non temere, soltanto abbi fede!” (v. 36).
Una e molteplice è la sofferenza che avvilisce la vita di noi esseri umani, e che questa scena di storie incrociate vorrebbe indurci a considerare. Quel molteplice ci ricorda che non esiste solo la “mia” sofferenza. Quell’una, sta a indicare la solidarietà che l’umano soffrire dovrebbe indurci a considerare. Dodici anni di vita ora minacciata dalla morte o dodici anni di sofferenza che non sembra voler dare tregua… Storie diverse, che pure stringono in una solidarietà che, se riconosciuta, diventa essa stessa via di guarigione. Perché fa bene accorgersi che la sofferenza non è nostro monopolio esclusivo, e che la nostra non vale più di quella dell’altro. Per guarire, come in questa pagina evangelica, è necessario che le storie s’intreccino, che le fragilità si riconoscano.
C’è poi la fede che accomuna queste due storie e che rende possibile la guarigione. Una fede che anch’essa, come la sofferenza, si esprime in forme diverse. C’è la fede della donna che, ormai esasperata dai tanti tentativi falliti (v. 26), osa l’inaudito: lei, considerata impura per le perdite di sangue, osa toccare il rabbi, senza calcolare troppo le conseguenze. La sua fede è un grido e un tentativo estremo. E poi c’è la fede di Giairo, che chiede non per sé ma per la sua bambina, che va fiducioso da Gesù, ma che poi, davanti al precipitare degli eventi, vacilla e ha bisogno di essere incoraggiato. Una fede che qui non viene da chi è nel bisogno, perché chi ha bisogno a volte non ha neppure la forza di chiedere la guarigione. Viene invece da chi vede e sente anche sua quella sofferenza, mostrando come la fede agisce anche grazie alla solidarietà di una umanità che si fa carico del tutto.
Varie sono dunque le forme della sofferenza, che implorano guarigione, ma non troppo distanti da poter evitare di intrecciarsi. Varie sono le forme della fede, a volte anche maldestre, ma non troppo diverse tra loro, perché unico è il desiderio di vita che abita ogni essere umano.
(fr Sabino di Bose)
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