XI Domenica PA - Mc 4, 26-34

Il Regno di Dio passa attraverso il gesto, l’agire, l’essere di ciascun credente perché le parole possono non corrispondere a quanto vive e serve fiducia, speranza e pazienza.

Poi una domanda retorica: "A cosa assomiglia il Regno?" non al cedro del Libano come gli ebrei pensavano, ma a una pianta infestante, un cespuglio che al massimo diventa più alto delle piante di un orto. Nessuna grandezza ma fiducia nell'azione di Dio

 


Così è il regno di Dio, come un uomo che getta il seme sul terreno …”. Un uomo, ciascuno di noi, che semina a spaio, che getta la semente in modo abbondante a mano larga senza pensare a dove cadrà. L’Evangelo va annunziato a tutti indipendentemente alla loro situazione, senza fare discriminazioni di nessun genere. Un annuncio che passa attraverso il gesto, l’agire, l’essere di ciascun credente più che il suo dire che può non corrispondere a quanto vive. Non deve pensare a dove cadrà il seme delle sue azioni, se e come eventualmente sarà accolto come avverte la parabola dei tre terreni (Mc 4,1-20 e Lc 8,4-15). È il suo vivere che è chiamato ed in ogni caso è messaggio per tutti quelli che incrociano la sua strada ogni giorno. 

Per questo la sua azione deve essere sorretta dal credere sinceramente in quello che fa (è il “seme” gettato) che è annuncio e nella sua forza che non dipende da lui ma dalla realtà che propone; è l’agire di Dio annunciato che è capace di produrre frutti straordinari, anche in terreni arsi, attraverso vitigni dissecati che sta al Signore potare, rinvigorire e far fruttare, non a noi (Gv 15,1-8).   

Un secondo atteggiamento da avere è quello della fiducia oltre che nel “seme” anche in chi lo riceve (è il “terreno”) senza pretendere di vedere subito un risultato. L’invito è quello di avere la pazienza in una speranza non delude che è la virtù da imparare ed esercitare alla quale ci sollecita papa Francesco nell’Anno Santo che ci aspetta.

Se guardiamo a Gesù comprendiamo subito come anche lui abbia esercitato fede, fiducia, speranza e pazienza verso i suoi discepoli e gli stessi Apostoli: c’era fino all’ultimo da far cadere le braccia per la loro incomprensione del suo messaggio e della sua missione. È la medesima che nella sua misericordia usa Dio nei nostri confronti “popolo dalla dura cervice” (Es 32,9), dalla testa dura, incapaci di comprendere e di rimanere fedeli alle promesse fatte. 

Una volta gettato il seme non rimane che attendere. Più volte Gesù l’ha fatto presente: i frutti si vedono alla fine (Mt 7,16-20; Lc 6,43-49) e bisogna trattenersi dal voler strappare la zizzania dal campo di grano (Mt, 13,29-30). È necessario essere fiduciosi che “Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza aver irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme a chi semina e il pane a chi mangia, così sarà della mia Parola, dice il Signore; parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me, senza effetto, senza avere operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata” (Is 55,10-11).

Tutto questo richiede la forza di non cedere all’evidenza, di accettare di non essere il protagonista, di assecondare solo il germogliare e la crescita del seme secondo i suoi tempi che non sono i nostri, né quelli dei nostri desideri. Si tratta di credere alla forza della Parola dell’Evangelo ed è il paradosso della fede cristiana: un seme gettato che deve essere sepolto nella terra, deve morire per poter germinare.

Quando la Parola cade nel cuore di un uomo vi rimane ma, per portare frutto, deve riuscire ad essere più forte delle tante altre parole ricche di lusinghe e dagli obiettivi almeno apparentemente più semplici da raggiungere a scapito degli altri. Deve divenire principio di discernimento del proprio agire che spinge alla misericordia, al perdono, alla giustizia, alla verità e, per questo, conducono alla pace (Ps 85,11-12) e, questo, ha dei tempi non determinabili. Bisogna solo attendere nella pazienza e nella speranza che non delude che non è disimpegno né indifferenza ma attenzione per poter capire quando il frutto è maturo e “subito” coglierlo.

Questo frattempo nel quale l’azione di Dio agisce nel silenzio non è inattività che anzi va evitata. È necessario accompagnare il processo di maturazione sarchiando il terreno, irrigandolo, concimandolo senza interferire, ma assecondando mettendosi a sua disposizione seguendo i suoi tempi con una presenza discreta dedita all’ascolto che cambia anche noi stessi. È come l’agire di un iconografo il cui lavoro è frutto di preghiera umile e alla fine non accetterà mai un complimento sulla sua opera perché questa che l’ha trasformato: è lui l’icona che la preghiera ha forgiato incidendo profondamente nella sua spiritualità e nel suo cammino di discepolato del Signore.

Poi Gesù continua e dice “A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio?” È una domanda retorica e già conosceva la risposta dei discepoli che conoscevano l’immagine del grande e maestoso cedro proposta da Ezechiele (17,23 ma anche Dan 4,9), che sta su un monte altissimo, qualcosa di straordinario, di bellissimo, che anche da lontano attira l’attenzione. Nulla di questo afferma Gesù. Il regno di Dio, anche nel suo momento del massimo sviluppo, sarà una realtà modesta, efficace, ma che non attirerà l’attenzione: sarà come l’arbusto di senapa che diventa solo più grande di ogni ortaggio ma che, in ogni caso capace di offrire rifugio e riparo agli uccelli. È un invito a non aver nostalgie di grandezza per un passato più immaginato che reale ma fiducia nella nostra piccolezza, in quello che riusciamo a seminare e all’azione del Signore.

(BiGio)

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