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Gv 9,1-41 - IV di Quaresima

Tra certezze preconfezionate e disponibilità ad interrogarsi per "vedere" oltre un piccolo orizzonte fatto di sicurezze che costringe alla passività


In queste tre domeniche quaresimali (la terza, la quarta e la quinta: la samaritana, il cieco nato, Lazzaro) ci vengono proposti tre diversi possibili cammini per incontrare il Signore nella disponibilità di un confronto aperto senza preclusioni, spinti dalla sete di sapere; nella capacità di uscire dal nostro piccolo orizzonte fatto di certezze incrollabili che ci impediscono di vedere oltre; nel confidare che è possibile uscire dal buio nel quale ci costringono i legacci delle convenzioni per riprendere il nostro cammino verso il Padre facendo la sua volontà.

 

Oggi, nel racconto del cieco nato, l’evangelista ci pone di fronte a due tipologie di uomini da una parte quelli pieni di certezze e nessun dubbio che non cambiano idea davanti a nulla, a nessuna evidenza; dall’altra un uomo al quale si aprono gli occhi e inizia a guardare come non gli era possibile prima. I primi per tre volte con sicumera certezza affermano che loro sanno: sanno che Gesù non viene da Dio perché ha guarito il giorno di sabato; sanno che Gesù è un peccatore; sanno che Dio ha parlato con Mosè. Si fanno giudici degli altri senza ascoltare veramente ciò che quelli che loro interrogano hanno da dire.

Il cieco nato è l’opposto di questi uomini; ha molti dubbi è una sola certezza: ora ha iniziato a “vedere”. Per tre volteafferma di non sapere: non sa dov’è Gesù; non sa se Gesù un peccatore e, alla domanda postagli da Gesù, se crede nel Figlio dell’Uomo, chiede: “e chi è Signore?” 

Il percorso che compie viene scandito progressivamente dai titoli con i quali si riferisce a Gesù e che posso essere le tappe principali di ogni cammino di fede. Innanzitutto il cieco dice: “ho incontrato un uomo”, cioè Gesù nella sua umanità. Spinto poi dall’incalzare delle domande afferma che Gesù è un profeta, affermando così che Gesù è un uomo preso da Dio, che viene nel suo nome compiendo e per compiere la sua volontà. Infine l’ultima tappa consiste nel riconoscimento e adesione di fede proclamandolo Figlio dell’Uomo.

 

Di questo uomo cieco non ci viene detto il nome perché rappresenta l’intera umanità come la donna samaritana la scorsa domenica. Anche oggi è Gesù che prende l’iniziativa in risposta alla domanda dei discepoli che, secondo l’opinione corrente, vedono nella disgrazia che vive quest’uomo il frutto di un peccato. Non è né colpa sua né dei suoi genitori: è la sua condizione di vita; Dio non c’entra con le disgrazie che ci capitano, ma ci è vicino affiancandoci per sostenerci. 

Se ci si pensa, in fin dei conti tutti noi nasciamo e viviamo in una condizione di “cecità”, abbiamo bisogno di qualcuno che ci faccia aprire gli occhi, che ci aiuti a imparare a leggere la realtà, a scegliere come vivere. “Finché sono nel mondo, sono la luce del mondo” dice Gesù e ci ha assicurato che sarà con noi “tutti i giorni fino alla fine del mondo” (Mt 28, 20) a farci da guida, a sostenerci nella sua sequela, nel vivere come lui ha vissuto, prendendosi cura del bisogno dell’altro.  

Detto questo, sputò per terra, fece del fango con la saliva, lo spalmò sugli occhi del cieco” e lo inviò a lavarsi alla piscina di Siloe. Siamo di fronte ad una ri-creazione e lo si comprende bene se si tiene presente che all’epoca la saliva era considerata il concentrato dell’alito; Dio ha creato l’uomo impastando del fango e con il suo soffio gli ha donato la vita. Ma c’è pure la necessità che quell’uomo faccia la sua parte: andare all’acqua che gli aprirà gli occhi, come li ha “aperti” alla Samaritana.

La condizione di quest’uomo, era di essere seduto e di chiedere l’elemosina, cioè era immobile, dipendente, andava dove lo portavano gli altri, ora non più: gli viene indicato cosa fare e lui sceglie di farlo; è un uomo nuovo, gli si è accesa una luce davanti che gli ha aperto le porte di una speranza di vita totalmente nuova. Si muove da solo, in autonomia, incontra persone, dialoga con loro e ha solo una certezza prima era cieco e ora ci vede. È quello che dovrebbe essere la nostra certezza: sapere che l'incontro con Gesù ci ha cambiato la vita e da accecati ci ha reso vedenti, indipendenti, senza avere nulla da difendere, capaci alla luce dell’Evangelo di discernere da soli e, anche pur nel dovuto rispetto, di staccarsi dalle posizioni dominanti dell’establishment. 

Non sbandiera la sua nuova realtà, è evidente agli occhi di tutti tanto che gli chiedono: “Che cosa ti è successo?” e lui inizia il suo racconto come suggerisce Pietro nella sua prima lettera: “Siate sempre pronti a rendere ragione della speranza che è in voi” (3, 15). Non dovrebbe essere necessario ostentare di essere credenti, è la nostra vita che dovrebbe raccontarlo, renderlo evidente.

C’è un leitmotiv che fa da filo conduttore a tutto il brano che compare sette volte: “aprire gli occhi”. All’inizio Gesù a quel cieco apre quelli fisici, alla fine lo va nuovamente a cercare perché viene a sapere che lo hanno cacciato emarginandolo dalla vita della comunità e gli apre quelli della fede che si concretizza nel credere, nell’aderire alla vita del Signore.


Questo percorso dalle tenebre, dal non capire, dal non saper "leggere" la realtà, alla luce è qualcosa che siamo chiamati a rinnovare costantemente, senza avere certezze preconfezionate, disponibili ad interrogarsi su quanto viviamo, chiedendo e cercando di vederlo con gli occhi del Signore per fare nostro il suo fattivo sguardo misericordioso.

(BiGio)

 


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