Nella risurrezione di Lazzaro Gesù insegna ad amare

La fede è il luogo della risurrezione e l’amore non trattiene ma, più ama, più lascia liberi.

Il vangelo parla della morte fisica, e, dal punto di vista di Gesù, della morte di una persona amata, di un amico. E questa è forse l’unica, o almeno la più drammatica esperienza della morte che noi possiamo fare in vita. Nella morte dell’altro a cui eravamo legati da amore, muore qualcosa di noi, muoiono possibilità di vita, viene menomato il nostro essere. E noi sperimentiamo che è l’amore, la qualità del legame che ci unisce a una persona che fa il ponte tra la vita e la morte e tra la morte e la vita. E l’amore è l’unica via che possiamo percorrere per dar senso alla nostra vita mortale. Dal testo evangelico possiamo evincere che se noi, per paura della morte, siamo indotti ad atteggiamenti difensivi, di protezione dal soffrire, che mortificano la vita stessa, Gesù, invece, chiedendo fede, suggerisce di entrare nel suo atteggiamento di fiducia anche di fronte alla morte (“Padre, io sapevo che sempre mi ascolti”: Gv 11,42), atteggiamento che, mentre assume la morte e soffre per colui che è morto, vivifica la morte. La fede è il luogo della resurrezione. La fede di Gesù è un magistero perché noi impariamo a credere: “L’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano” (Gv 11,42). Proclama un’omelia dello Pseudo Ippolito: “Avendo tu visto l’opera divina del Signore Gesù, non dubitare più della resurrezione! Lazzaro sia per te come uno specchio: contemplando te stesso in lui, credi nel risveglio”. Ma se la fede è il luogo della resurrezione, l’amore ne è la forza: Gesù “amava molto Lazzaro” (11,5) e questo amore si fece visibile nel suo pianto dirotto (cf. 11,35-36). L’amore integra la morte nella vita e trova il senso di quest’ultima nel dono: dare la vita diviene un dare vita. E anche questo fa parte della pratica di resurrezione che noi possiamo vivere e di cui possiamo farci dono gli uni gli altri. Aver fede in Gesù che è resurrezione e vita significa fare dell’amore un luogo in cui la morte viene messa a servizio della vita.

Il passaggio dalla morte alla vita con cui ci prepariamo a vivere il passaggio dalla vita alla morte è dunque l’amore. Quell’amore chiamato a divenire il nostro volere come lo fu di Cristo. Quell’amore che Agostino dice essere il contenuto della volontà del cristiano. L’amore è la volontà unificante ultima e decisiva della persona umana, che lì trova la sua libertà. Nelle libere obbligazioni a cui si sottomette, nella morte a sé che affronta amando, facendo dell’amore la bussola della propria vita, l’uomo trova la propria dilatazione umana e spirituale, la sensatezza del proprio vivere. Agostino afferma: voluntas: amor seu dilectio (De Trinitate XV,XXI,41). “La volontà? È amore, è dilezione”. Il dinamismo infinito di questo principio e la sua relazionalità, la sua apertura all’altro, è mostrato da un’espressione spesso attribuita allo stesso Agostino e che dice il risolversi della volontà in amore: Amo: volo ut sis (“Amo: voglio che tu sia”). Amare è volere la vita dell’altro, non è voler possedere l’altro, non è volere che l’altro sia per me, che mi ami a sua volta, ma che sia e basta, che esista, che viva. In questo volere divenuto amore può divenire vivibile e sensata un’intera vita. Questo amare è la morte vivificante che ci prepara al passaggio dalla vita alla morte credendo la forza dell’amore di Cristo che opera il passaggio dalla morte alla vita.

Iniziato con l’annuncio a Gesù “Colui che tu ami è malato” (Gv 11,3), il racconto della resurrezione di Lazzaro non è solo una pedagogia verso la fede cristologica (espressa al v. 27: “Io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo”), ma anche una pedagogia all’amore e all’amore che si confronta con la morte. Morte che è nemica dell’amore ma anche suo banco di prova. La morte della persona amata pone fine all’amore che vivevamo e al futuro che tale amore prometteva. Gesù vive il turbamento della morte dell’altro amato, e lo esprime emotivamente scoppiando in pianto (v. 35). Ma, di fronte alla tomba, Gesù agisce e Marta sembra volerlo frenare: “Già manda cattivo odore” (v. 39). Marta pare legata alla morte e tiene il fratello ancorato a essa. Ma per Gesù anche la morte è luogo di manifestazione della gloria di Dio (cf. v. 4). E la gloria, nel IV vangelo, è la gloria dell’amore. Il problema non è evitare la morte, ma cogliere che in essa si può manifestare la gloria di Dio, il suo amore. Solo un amore che assuma la tragicità e l’ineliminabilità della morte conduce al passaggio dalla morte alla vita. Gesù crede l’amore anche davanti al cadavere. E il comando che Gesù impartisce dopo aver chiamato Lazzaro è “liberatelo e lasciatelo andare” (v. 43). Il comando riguarda gli astanti: Lazzaro già si sta muovendo. Il problema sono quelli che lo attorniano che devono lasciarlo andare, perché l’amore non trattiene ma, più ama, più lascia libero l’amato. Gesù sta insegnando ad amare: non conduce a sé il morto ritornato alla vita, ma insegna ad amare con libertà. Amare è liberare l’altro. E anche la morte non può trattenere l’amore. Il passaggio dell’amato Lazzaro dalla morte alla vita, anticipa ciò che Gesù farà di lì a poco quando avendo amato i suoi li amerà fino alla fine, consegnandosi a quella morte che non potrà trattenerlo perché la potenza dell’amore scioglie i legacci degli inferi.

(Luciano  Manicardi)

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