Sebbene non siano ancora state pubblicate cifre ufficiali sul numero esatto di vite perse nel Paese africano a partire dal 2013, le donne ancora pagano un prezzo pesante nella guerra contro il gruppo jihadista. Ma nonostante siano state colpite nella loro salute mentale, in quella fisica, sessuale e persino riproduttiva, rimangono in piedi con una capacità di resilienza quasi impareggiabile
È il 2013, Fatna (nome di fantasia) viene svegliata nel cuore della notte dal figlio ventiduenne che l’avvisa che qualcuno bussa alla porta di casa. Lei e il marito si alzano, mentre in casa irrompono i terroristi, che prendono il figlio e lo sgozzano davanti agli occhi dei genitori che assistono impotenti. Il padre fugge via, lei, Fatna, resta ad affrontare da sola gli assassini. "Sono rimasta lì a guardare mio figlio che giaceva in una pozza di sangue – ricorda tremante, con gli occhi che ancora oggi si riempiono di lacrime – sono rimasta lì a guardare il suo cadavere, il suo corpo senza vita. Quel giorno è stato come se la terra mi fosse caduta sulla testa. Il mio mondo è crollato davanti ai miei occhi e ciò che fa più male è che non ho potuto fare nulla. Non potevo fare nulla. Mio figlio è morto proprio davanti a me... Non volevo più vivere... Volevo morire anch'io..."
Il reportage di Augustine Asta continua a questo link:
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