La missione non è frutto dell’iniziativa personale, non è espressione di protagonismo. La condizione dell’invio è quello del “rimanere” o meglio del “dimorare” in Gesù che, agli inviati,non dice che cosa “predicare” ma cosa “fare” e avere a cuore l’intera persona umana.
Si può dire che la Liturgia negli Evangeli di queste ultime settimane ci ha proposto un ritmo “alternato”: una domenica viene annunciato un tema, in quella seguente c’è una “sfida” per i discepoli e coloro che incontra nel suo itinerare. Infatti dopo aver illustrato come il Regno di Dio cresce simile ad un arbusto infestante indipendentemente dall’attività dell’uomo che è chiamato solo a seminarlo, c’è la sfida proposta ai discepoli misurarsi senza la sua presenza (la tempesta sul lago); dopo aver ridonato vita a due “figlie” (quella di Giairo e l’emorroissa), è incappato nell’incomprensione nel suo paese natio che gli impedisce di guarire come lui desidererebbe. Riprende allora a girare insegnando nei villaggi ma non più nelle Sinagoghe dove per tre volte è stato duramente contestato e incompreso con affermazioni categoriche che non lasciavano spazio all’azione dello Spirito.
Oggi inizia un’altra coppia di domeniche ma dalle caratteristiche diverse: fa sperimentare ai discepoli quello per il quale li ha chiamati a sé (la missione) e il loro ritorno. Gesù in Marco (3,13b-15) sale sul monte seguito dai discepoli e “chiamò a sé quelli che voleva ed essi andarono da lui. Ne costituì Dodici - che chiamò apostoli -, perché stessero con lui e per mandarli a predicare con il potere di scacciare i demòni”. Oggi c’è un richiamo esplicito a questo versetto: “Chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri” (Mc 6,7).
Due espressioni uguali: “chiamò a sé” per “mandarli” (è questo il significato greco del termine “apostolo”), con il “potere di scacciare i demoni” o gli “spiriti impuri” cioè quelle realtà che tentano di portare il disordine nell’ordine della creazione, guidando anche l’uomo ad allontanarsi dal mandato dato di portarla a compimento e non di stravolgerla, di conservarla e non di usarla a suo esclusivo beneficio, condividendola sapendo che dovrà riconsegnarla arricchita e non impoverita.
L'insuccesso nella sinagoga di Nazareth dove Gesù non è stato creduto e ha potuto compiere solo pochi gesti non solo non scoraggia Gesù, ma lo porta ad intensificare la sua attività mettendo alla prova dei fatti coloro che ha chiamato a sé. È importante notare che la condizione dell’invio è quello del “rimanere” o meglio del “dimorare” in Gesù (come ci è stato indicato nell’Evangelo della VI Domenica del Tempo Pasquale) anche quando si è in “missione”. Inoltre agli inviati Gesù non dice che cosa “predicare” ma cosa “fare” e il come essere portatori della buona notizia cioè che “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo” (Mc 1,15) non a parole ma con la loro vita, il loro modo di essere e di agire.
La missione non è frutto dell’iniziativa personale, non è espressione del protagonismo del credente anche se spinto dalle migliori intenzioni di “salvare il mondo. Il missionario è un chiamato: quindi dev’essere anzitutto una persona obbediente alla Parola del Signore, disposto a rinnovare la propria chiamata giorno per giorno con l’ascolto quotidiano della Scrittura. Altrimenti sarà una mera manifestazione di protagonismo umano e non “sacramento” della presenza del Regno tra gli uomini. L’inviato non è poi un avventuriero isolato. Agisce in obbedienza a un mandato, ma svolge la sua missione insieme ad altri. Vengono infatti “mandati a due a due”, non solo perché in quel tempo una testimonianza perché fosse vera doveva essere fatta almeno da due persone, ma soprattutto perché la vita insieme, la qualità della loro relazione, sono già una testimonianza che rende presente Cristo a coloro che incontrano. È esperienza di tutti che, per quanto ci si conosca, viaggiare in due produce tensioni, mette a dura prova la propria capacità di sopportazione, di accoglienza, di ascolto, di rispetto. Per questo una relazione improntata a comunione e carità è la prima realtà che rende manifesto quel modo nuovo di essere che è la realtà del Regno, non altro.
Gesù poi situa la missione all’interno del radicalismo evangelico e proibisce non solo il superfluo ma anche il necessario, pure quello che potrebbe renderla più efficace. Il suo punto di vista non è quello dell’efficacia operativa, ma quello dell’essere segno del Dio che viene.
L’indicazione poi del bastone, della cintura ai fianchi, dei sandali e null’altro, inserisce la missione nella memoria dell’Esodo, di un cammino salvifico non “contro” qualcuno, ma a favore di tutti sapendo che si potrà essere anche rifiutati come è accaduto a Nazaret. Ma non ci si deve scoraggiare o pensare al fallimento, bensì sempre continuare e, come ha mostrato Gesù, subito riprendendo ad insegnare nei villaggi.
Infine gli inviati (anche noi tutti se desideriamo essere suoi discepoli) devono avere a cuore l’intera persona umana; per questo “ungevano con olio molti infermi e li guarivano”.
(BiGio)
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