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A proposito di uomini e di educazione

Su Il Post è uscito un articolo che parla dei cerchi degli uomini, vale a dire i gruppi di autocoscienza maschile che prendono le mosse da quelli che a partire dagli anni ‘70 hanno formato e indirizzato il cammino dei femminismi. 



Non capita spesso, ma ogni tanto capita che gli uomini (e i ragazzi) chiedano a noi donne come fare, da dove cominciare. E io: trovatevi una stanza, noi mica lo sapevamo, come fare. Ci siamo trovate una stanza.

La risposta, però, è incompleta. Perché è vero che ci siamo trovate una stanza, ma è anche vero che eravamo spinte da una necessità evidente, impellente: quella di liberarci, di prendere possesso dei nostri corpi, delle nostre vite e dei nostri desideri. C’era una sofferenza riconosciuta ormai da secoli, e la ricerca di una via d’uscita ci sembrava più che mai impellente. Ci ammazzavano, allora come ora, ma allora potevano sfangarla se venivano riconosciute le attenuanti per onore. 

Allora, da dove si comincia? Da quello che ti fa star male, dal riconoscimento delle fragilità. Non è tanto diverso dal lavoro fatto dalle nostre madri: quando le femministe cominciarono a riunirsi nei gruppi di autocoscienza, la maggior parte delle donne se ne teneva ben lontana. Il femminismo rappresentava una minaccia per l’identità femminile nel contesto familiare, per quello che Eugenia Roccella chiama (ai giorni nostri, non cinquant’anni fa) “Il prestigio sociale della maternità”, la funzionalità che ti risparmia di domandarti chi sei e cosa fai al mondo, perché il tuo posto è già stato deciso. Ancora adesso, le donne di destra vedono l’autocoscienza come un piagnisteo e i femminismi come un’intollerabile ammissione di fragilità, ed è pieno di donne che ritengono che “essere corteggiata” quando non direttamente “attaccata al muro” sia un diritto naturale della femmina. Gli uomini partono da una base abbastanza simile: andare contropelo rispetto alle aspettative e ai privilegi per riconoscere la fragilità, i desideri profondi, il malessere, ma anche quello che ti fa stare bene e che ti è precluso in quanto maschio. 

So benissimo che queste pratiche presentano dei rischi. Gli uomini hanno un allenamento antico a scaricare i pesi sulle donne, e le donne un allenamento altrettanto antico a caricarseli. 

Non serve spiegarlo, mi sembra chiaro: dato un problema maschile, ci si aspetta che a risolverlo siano le donne. Il rischio, quando si parla di fragilità, è sempre che la richiesta alle donne sia “risolvi il mio problema” e non “rispetta il mio percorso di autocoscienza”. E quando le donne a “risolvi il mio problema” rispondono “no” (come Giulia Cecchettin, per fare un esempio recente), non c’è garanzia che la risposta non sia, in qualche modo, violenta. Perché un uomo è condizionato dall’intera società a pensare che le donne debbano essere a sua disposizione, che siano ancelle e aiutanti per natura, e non per paura e millenario senso del dovere. 

A questo servono, o dovrebbero servire, i cerchi degli uomini: a creare uno spazio di autonomia e crescita emotiva che porti alla liberazione dalle costrizioni, e quindi anche dalla sofferenza generata dalla pressione costante della maschilità tradizionale. I cerchi degli uomini non sono tanti, ma niente di niente vieta di crearne uno, in qualsiasi posto, con gli amici e le persone conosciute o con degli sconosciuti. Basta una stanza, appunto.

(Giulia Blasi)

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