Nell’Evangelo di oggi Matteo ci dice che non si può fare a meno di Israele, di Gerusalemme e della Parola, non basta un’appartenenza ufficiale al popolo eletto o, potremmo dire noi oggi, alla Chiesa. Le Scritture sono certamente necessarie, occorre passare attraverso di esse, ma non bastano, occorre un animo capace di ascoltarle, un cuore “ubbidiente” e saggio.
Nell’Evangelo di Natale, l’annuncio della nascita e i primi ad accorrere a “vedere” sono stati i negletti pastori, messi ai margini della società, considerati impuri e, per questo, capaci di rendere impuro (perciò esclusi da ogni funzione religiosa) tutti coloro che entravano in contatto con loro.
Nella festa della Manifestazione di Gesù al mondo dopo i pastori giungono a “verificare” quanto annunciato dagli angeli dei pagani, che sarebbe già abbastanza per la mentalità dell’epoca, ma sono pure dei “maghi” (e non dei “magi”). Quella professione era sinonimo di gente capace solo di ingannare, erano dei corrotti che corrompevano la buona fede della persone. La loro attività era duramente condannata dalla Scrittura e vista severamente dalla prima comunità cristiana. Per la Didaché, il primo catechismo della chiesa, l'attività del mago è proibita ed è collocata tra il divieto di rubare e quello di abortire. Quindi ad adorare Gesù sono delle persone ritenute le più lontane da Dio che, al di là del loro mestiere, si ritenevano non degni della salvezza e che non sarebbero risorti perché dei pagani.
Giungono a Gerusalemme seguendo la “sua stella” ma qui perdono la loro guida, non brilla più: quella città è una realtà che uccide i profeti e gli inviati da Dio (Mt 23,27), una luce tetra la pervade ed è significativo che in questo Evangelo il Risorto non vi appaia mai, inviti invece i discepoli a lasciarla e ad andare nella Galilea delle Genti dove li incontrerà. Cioè in un territorio sulla “Via del mare” dove la promiscuità di nazioni, religioni, credenze si confondevano le une con le altre e la promiscuità che rendeva impuri era la norma.
La stella, quella luce del Prologo dell’Evangelo di Giovanni, precede i maghi esattamente come il Signore precedeva il popolo d'Israele nel cammino dell'esodo della liberazione: l’avevano vista spuntare fin dalla loro terra pagana. Il riferimento biblico e alla profezia di Balaam: “un astro sorge da Giacobbe e uno scettro si eleva da Israele” (Nm 24). Inizialmente questo oracolo veniva riferito a Davide, in seguito all’atteso Messia. Anche Balaam era uno straniero, un pagano, un incantatore cioè un mago. È una caratteristica della narrazione biblica far emergere dei personaggi stranieri che diventano significativi per la storia della salvezza, Ciro il Grande per citarne un altro.
Mentre Gerusalemme ed Erode tremano per la paura di perdere tutto quello che avevano, dei pagani giungono a Betlemme e riconoscono in Gesù non solo un re, ma anche il Figlio di Dio. Ce lo dice il loro prostrarsi davanti al bambino e per adorarlo, atteggiamenti dovuti solo ad una divinità.
Qui c’è un primo richiamo per noi che è ricorso ripetutamente in Avvento: alzare lo sguardo, guardare fuori del nostro ambito, della bambagia nella quale forse ci siamo accoccolati, delle nostre certezze, delle nostre sicurezze. Non che non se ne debbano avere, ma non si deve smettere di interrogarci, di porre domande e di avvertire quelle che altri ci pongono anche e soprattutto se non sono del nostro cerchio magico. I germi di salvezza sono ovunque non solo nel nostro orticello e, a volte, i primi sono i più significativi. Coglierli, farli crescere e dare corpo alle realtà più minuscole che offrono speranza nelle realtà più disperate, è compito delle nostre mani e non solo il fermarsi a guardare e pietire. Poi negli Evangeli coloro che ci sono “stranieri” sono sempre realtà positive che non tolgono ma arricchiscono.
In fin dei conti quei stranieri della peggior specie alzano lo sguardo, si interrogano, si mettono in movimento; sono disposti anche a lasciarsi condurre lontano dalla loro ricerca, dalla sicurezza dalle loro radici. Non hanno nulla da perdere, nulla da rivendicare, tutto da ricevere. Di contrappunto c’è il re Erode e con lui tutta Gerusalemme bene agganciati alle loro poltrone, alla loro situazione di privilegio, al tranquillo tran-tran da difendere.
Nell’Evangelo di oggi Matteo ci dice che non si può fare a meno di Israele, di Gerusalemme e della Parola, non basta un’appartenenza ufficiale al popolo eletto o, potremmo dire noi oggi, alla Chiesa. Le Scritture sono certamente necessarie, occorre passare attraverso di esse, ma non bastano, occorre un animo capace di ascoltarle, un cuore “ubbidiente” e saggio.
Sappiamo poi che i maghi portano dei doni. Il primo, l’oro, ci dice che siamo tutti preziosi agli occhi di Dio; l’incenso è l’elemento specifico del servizio sacerdotale; la mirra è la maggiore componente (con il cinnamomo, la canna aromatica e la cassia) dell’olio per l’unzione di re, sacerdoti e profeti con il quale tutti i cristiani vengono unti nel Battesimo. La mirra richiama il profumo dell’amore esclusivo e appassionato di una esperienza appagante, ma pure la sofferenza che l’amore provoca, così viene descritta nel Cantico dei Cantici: è la nostra vita.
(BiGio)
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