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II Domenica dopo Natale - Gv 1,1-18

L’incarnazione ci indica che la via di Dio è la mitezza che è la nota dominante dell’agire e del vivere di Gesù tra gli uomini. Mitezza che è capacità di essere più forti della propria forza, di avere la capacità di metterci dei limiti per lasciare spazio agli altri.


In principio era la parola, … tutto è stato fatto per mezzo di essa”. L’inizio dell’Evangelo di Giovanni ci provoca a riflettere sulla parola, dabar in ebraico una lingua che non ha i “concetti” così come li intendiamo noi oggi e, per esprimerli, usa delle immagini. Per capirci: la forza è indicata dal braccio, il bicipite grosso. Quando “In principio Dio creò il cielo e la terra” lo fece attraverso la sua parola cioè quello che diceva diventava un fatto concreto “Dio disse: sia la luce e la luce fu”. Ora Giovanni ci dice che “tutte le cose sono state create per mezzo del Figlio e in vista di lui”, cioè tutta la creazione e la storia è tesa verso Gesù, in lui ha il suo fine, il suo senso ultimo. Non è però un percorso rose e fiori, non è a costo zero perché include anche la caducità della creazione che, come a noi, è stato chiesto pure a Gesù di assumere e attraversare. È questo che lui porta sulla croce e fa rifiorire con la sua morte nella sua risurrezione.

Il nostro Dio non è un idolo opera delle mani dell’uomo che ha bocca ma non parla (Ps 115,3-8), è un Dio che “parla” e con questo, per questo, si manifesta all’uomo costituendolo capace di relazionarsi con lui. L’incipit del Decalogo lo afferma decisamente. Così l’uomo diventa un essere capace di stare ritto difronte al Signore della storia e di interloquire con lui in una piena alterità, in una relazione nel rispetto di una cosciente libertà. In altre parole propone all’uomo la possibilità di confrontarsi con lui nella diversità dei ruoli e delle differenze.

Indirizza una “parola” che non dispone bensì invita e offre, apre una via, indica un percorso. È un Dio che “A quanti lo hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio”, cioè non si nasce, ma si diventa “Figli di Dio” accogliendo e facendo proprio quel progetto di vita che ci ha dimostrato percorribile con coerenza nel suo Figlio fatto uomo.

Per questo “venne ad abitare (non “in mezzo a noi”, ma:) in noi”.  È un Dio che chiede a ogni uomo di diventare l’unico vero santuario dal quale irradiare il suo amore. “Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto grazia su grazia cioè al suo amore aggiunge continuamente altro amore che, una volta ricevuto va accolto e a sua volta comunicato ad altri. 

La sua “gloria” ci accecherebbe, sarebbe una violenza nei nostri confronti, per questo si manifesta incarnandosi, cioè “velandosi”. Tre discepoli, Simone, Giacomo e Giovanni, vedranno questa gloria nella Trasfigurazione e ne rimarranno senza parole.

L’incarnazione ci indica che la via di Dio è la mitezza che è la nota dominante dell’agire e del vivere di Gesù tra gli uomini. Mitezza che è capacità di essere più forti della propria forza, di avere la capacità di metterci dei limiti per lasciare spazio agli altri. Dio si abbassa talmente da non annientare le tenebre ma di scendere in queste senza lasciarsi sopraffare e, anche in mezzo a queste, continuare a brillare indicandoci la strada come fu la stella per i Magi. A volte è una fiammella tenue, un barlume fumigante (Is 42,3), sta a noi riuscire a coglierla come ci è stato ripetutamente detto durante l’Avvento, sta a noi rinvigorirla e farla diventare luce per chi vive nelle tenebre e dirigere i nostri passi sulla via della pace (Lc 1,79).

Se “In principio” c’è il nostro Dio che parla costituendoci suoi interlocutori, significa che a noi sta il compito innanzitutto di ascoltare prima che di parlare, questo non altro è la preghiera cristiana. Perciò ci è chiesto di frequentare assiduamente la Scrittura perché è lì che troviamo la nostra “stella” le indicazioni del senso della nostra vita. Ascoltando, poi, impariamo pure a parlare cioè ad essere capaci anche noi di dare vita, creare fiducia, condivisione, comunione stando attenti che c’è anche la possibilità che la parola diventi il contrario: creare smarrimento, seminare sfiducia, minare le relazioni, cadendo nella violenza, nel contrario di quella luce che siamo richiesti di esprimere. Perché non esiste dono di Dio che non passi attraverso la nostra carne, quella caducità che caratterizza la nostra umanità e ci rende coscienti che il suo amore fedele, la “grazia e verità”, non nasce dal bisogno dell’uomo, ma lo precede. 

Allora si comprende la lieta notizia, l’annunzio del Natale: non è l’uomo che deve salire verso Dio per divinizzarsi, ma è Dio che sceso verso gli uomini umanizzandosi. A noi il compito di accorgercene, di accoglierlo, farlo nostro imitandolo, lasciandolo agire attraverso di noi. Così saremo più “umani” e il divino che è in noi si manifesterà.

(BiGio)

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