Nell’Evangelo la liturgia ci propone la seconda delle due parabole sul rapporto tra la giustizia e la misericordia di Dio: quella del ricco e di Lazzaro. Con oggi è la settima domenica di file che ci si trova immersi in una tavola imbandita a festa. Abbiamo lasciata quella organizzata dal Padre per far festa al figlio minore ritornato a casa e ci ritroviamo in un’altra descritta con i medesimi verbi, ora siamo a quella di un ricco vestito lussuosamente e non casualmente senza nome. Fuori della sua porta sta un povero agli estremi, che spera di poter raccogliere qualcosa dagli avanzi che da quella tavola casualmente potrebbero cadere per terra.
I due personaggi muoiono e Lazzaro, che significa “Dio aiuta”, si ritrova a sedere al posto d’onore nel banchetto del Regno “portato dagli angeli nel seno di Abramo” al medesimo modo nel quale Gesù, il Logos, stava “nel seno del Padre” (Gv 1,18), o il discepolo amato sul “seno di Gesù” nell’ultima cena. Il ricco invece precipita nell’ade fra i tormenti.
Questo, il rovesciamento delle parti, avrebbe potuto essere il finale secondo le narrazioni in tutte le letterature delle civiltà medio orientali. Finale che è già apparso anche il Luca nel Magnificat: “ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote”.
Sarebbe stata una chiara immagine della giustizia retributiva di Dio, quello che tutti si attendevano e, purtroppo, ancora molto in voga anche ai nostri giorni. Per Gesù questa invece è solo la premessa e il seguito è totalmente inatteso da tutti.
Il ricco vedendo la diversità delle sorti “grida” verso Abramo chiamandolo Padre e, pensando solo a sé stesso, chiede quella pietà che lui non ha mai avuto in vita verso nessuno. Per di più ora invoca che Lazzaro gli faccia da servo portando lenimento alle sue sofferenze. Ma il povero si trova in una situazione che non gli concede di fare da servo a nessuno. Inoltre fra i due mondi c’è quella porta chiusa della sala da pranzo del ricco che non permetteva alcun rapporto, alcuna comunicazione e che ora è diventata la separazione, da distanza incolmabile tra il seno di Abramo e l’Ade.
Anche il ricorso alla paternità di Abramo è inutile e non garantisce nulla, come non ha garantito i ritardatari alla festa dopo che il padrone aveva chiuso la porta nella parabola di poche domeniche fa (la XXI, Lc 13,22-30). In fin dei conti lo aveva annunciato anche il Battista quando aveva detto che Dio può suscitare figli anche dalle pietre e che l’appartenere alla stirpe di Abramo non esonera dalla conversione.
Il “senza nome”, cioè chiunque (anche ciascuno di noi), ora sposta l’attenzione da sé stesso ai suoi familiari, ma chiede sempre di usare Lazzaro: se Abramo lo inviasse per mettere in guarda i suoi fratelli. La risposta è lapidaria: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”. Dio ha fatto il dono dell’Alleanza e della Torah, lì è scritto tutto. Tra l’altro Gesù stesso non fa altro che riaffermare ciò che ogni ebreo sa già: “Beati quelli che ascoltano la Parola di Dio e la osservano” (Lc 11,28).
Il ricco per sé stesso fa un ultimo tentativo cambiando tattica. Questa volta non nomina nemmeno Lazzaro ma cerca di persuadere Abramo: “se qualcuno dai morti andrà da loro, si ravvederanno”. Sotto però c’è sempre la richiesta di “usare” qualcuno a beneficio di qualcun altro e riceve un’altra risposta tombale: “Se non ascoltano Mosé e i Profeti, neppure se uno risuscitasse dai morti saranno persuasi”.
A dimostrazione di questo sta la risurrezione di Lazzaro (il fratello di Marta e Maria) che ha invece indurito ancora di più il cuore degli avversari di Gesù, che cercano di farlo morire assieme al suo amico. Non è la risurrezione di qualcuno che converte, ma l’essere raggiunti nel presente dall’amore del Signore, magari attraverso persone che donano piccoli gesti di sostegno come indica Matteo 25,31-46.
A questo punto dovrebbe essere chiaro cosa Gesù desidera dirci con questa parabola: il pericolo non è quello di possedere una ricchezza ma di diventarne succubi, fino ad essere posseduti da lei stessa, finendo per non riuscire a vedere altro ed arrivare ad idolatrarla sostituendo Dio con questa: “Là dove è il tuo cuore …”.
Il ricco senza nome se n’è accorto troppo tardi. Eppure aveva avuto per tutta la sua vita le Scritture a sua disposizione per poterlo comprendere. Avrebbe potuto convertirsi e riorientare la propria vita, spostare il proprio baricentro da sé stessi verso gli altri. È un cammino che ha una sola regola: la docilità alla Parola di Dio frequentandola giornalmente, lasciando che germogli e fiorisca lentamente dentro di noi, rendendoci capaci di cercare esprimere quella giustizia e quella misericordia con al centro il bisogno dell'altro che oggi siamo chiamati, anche con il nostro voto, a individuare come soddisfare senza guardare solo al nostro ego.
Spesso si sente chiedere o affermare che per i cristiani basta l’Evangelo dimenticando che, per capire l’opera di Gesù, è necessario conoscere ciò che ha portato a compimento. In fin dei conti ai discepoli di Emmaus Gesù “apre la mente” per poter comprendere le Scritture e lo può fare anche con noi solo se le conosciamo. Solo così può renderci capaci di accogliere il suo messaggio e la sua persona. Solo così possiamo metterci realmente alla sequela alla quale ci chiama.
(BiGio)
PS: "Pensare la vita solo in misura di se stessi, utilizzando sempre gli altri ai propri fini" è rinunciare alla vocazione propria dei cristiani in favore del bene comune che, in questa domenica, può tradursi nel non andare a votare. Come ricorda un celebre documento delle origini cristiane, la Lettera a Diogneto, "ciò che nel corpo è l’anima, questo sono nel mondo i cristiani... Dio ha voluto che essi tenessero un tale posto nel mondo: sarebbe un delitto scegliere la fuga". Nessuna ‘via di fuga’ dalla città dovrebbe essere consentita ai credenti. Per noi il votare è più di un diritto/dovere; è una questione di identità che ci "impone" di esprimere il nostro voto a favore di chi si impegna a guardare oltre il proprio naso, al di là del nostro stesso interesse di parte e che, invece, guarda al bene collettivo a partire dalla crisi climatica che determinerà il mondo che consegneremo ai nostri discendenti.
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