Ascoltando gli Evangeli di queste domeniche si comprende come Gesù sia all’apice del suo successo. Andando verso Gerusalemme, passa per città e villaggi insegnando, viene invitato a pranzo dai notabili del paese, il suo annuncio centrato sulla misericordia attrae sempre più persone al suo seguito, le “folle” si mettono alla sua sequela. La schiettezza con la quale parla sembra non incidere, nemmeno quando, come oggi, voltandosi e guardando negli occhi chi lo sta seguendo, pone loro delle condizioni esigenti.
Le sue parole sono scioccanti nella loro durezza: “se uno viene dietro a me e non lo odia suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli e le sorelle, e anche la sua stessa vita, non può essere mio discepolo”. Ma cosa significa questo “odiare”?
Non è un sentimento ma il desiderio di evidenziare la radicalità della scelta da operare quando si tratta di seguirlo. In precedenza, aveva dichiarato che per andargli dietro occorreva prendere “ogni giorno la propria croce”, prospettando al discepolo una vita né facile né semplice; la porta stretta del fare quotidianamente quello che è giusto secondo il Padre, non è affatto semplice.
Oggi l’accento è diverso ma altrettanto esigente: la sequela di Cristo esaurisce tutte le capacità dell’amore umano, persino quello verso sé stessi; per questo viene ribadita anche qui l’esigenza di portare la croce. È dunque un drammatico aut aut, o il Cristo o i parenti, nel caso anche la moglie o il marito, se questi si frappongono alla possibilità seguirlo. Difficoltà che può essere rappresentata pure dal possedere ricchezze. In altre parole Gesù chiede di verificare cosa sta al centro della nostra vita: il nostro io con tutti i suoi legami o il vivere come lui ha vissuto per gli altri.
Con questo, però, non abolisce il duplice Comandamento dell’Amore ma è proprio alla sua luce, che si può capire l’odio del brano di oggi, perché questo Comandamento nella sua prima parte ci chiede di amare Dio totalmente con “tutto il cuore, tutta l’anima, tutta la forza e tutta la mente”, coinvolgendo ed esaurendo così tutte le capacità umane dell’amore. La seconda parte è invece la sua conseguenza: se si ama Dio in quel modo, l’amare il prossimo “come se stessi”, scaturisce naturalmente, non è possibile che avvenga altrimenti: è un dono che si riceve, che nasce dall’amarlo. Con Paolo si potrà giungere ad affermare che si finisce a non essere più noi che viviamo, ma Lui che vive e opera in noi e, in questo modo, il “prossimo” diventa quasi “carne della nostra carne” cioè non un estraneo, ma un fratello da amare come noi stessi perché figli del medesimo Padre che ci ama. Allo stesso modo chiunque odia padre, madre, moglie… e persino sé stesso per suo amore di Cristo, finisce per averli restituiti in dono non più come padre, madre… ma come fratelli e sorelle in Lui, come è un dono il diventare suoi discepoli. L’esserlo o il diventarlo non è infatti una nostra iniziativa, non siamo noi che autonomamente lo decidiamo. Se si fa attenzione è scritto che se non lo seguiamo “non possiamo essere – e non diventare - suoi discepoli”. Questo perché si è scelti da lui e, se lo siamo, ci troviamo continuamente davanti a quell’aut-aut iniziale.
A questa stessa radicalità rimandano le due piccole parabole del costruttore di una torre e del Re che parte in guerra. A prima vista contraddicono l’idea della vocazione fulminea, istantanea, dell’inizio dell' Evangelo. Ci viene invece indicato di sederci e riflettere su ciò che si sta per fare, per timore di non farcela e di essere svergognati o di andare incontro a un prevedibile disastro.
È l’invito a rendersi conto che la sequela è una costruzione e dunque va seguita fino alla fine del lavoro, coinvolgendosi totalmente, o “cominceranno” le beffe che non finiranno mai.
La sequela è simile a un Re partito in guerra: è una lotta. Questa seconda parabola è più complessa dell’altra perché non presenta solo due uscite possibili, ma tre: la vittoria nonostante il minor numero di soldati, la catastrofe della disfatta ma anche la possibilità di un accordo di pace prima di iniziare la guerra. La sequela non è un gioco, vede impegnata la propria reputazione, la propria vita, e dunque il Signore, prima che vi ci si impegni, ci invita a pensarci su bene.
L’ultimo versetto va inteso bene: “così dunque, chiunque di voi non rinuncia a tutto ciò che possiede non può essere mio discepolo”; è la firma di Gesù sulla parabola. Il sedersi, il fare bene i conti, il valutare quale probabilità ci sia di vincere la guerra, non è prendere il tempo per decidere, ma il rendersi conto che i mezzi umani, le capacità, le forze, l’intelligenza, la fortuna finanziaria, in breve “tutto ciò che uno possiede”, anche tutti i suoi carismi non lo aiutano a seguire Gesù. Gli possono invece essere di ostacolo ed impedimento, per cui occorre “congedarsi” da tutto (questo il senso letterale del verbo greco tradotto con rinunciare) e affidarsi al volere del Padre.
Come si deve come “odiare” i parenti e persino la propria vita e come si deve “portare la propria croce”, così pure, con la stessa radicalità, ci si deve alleggerire di tutto ciò che si possiede per diventare semplici, nudi strumenti nelle sue mani.
(BiGio)
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