Una chiamata radicale che invera quella di Abramo


Questo Vangelo è spiegato dalla parabola che lo precede immediatamente, in cui gli invitati alla festa rifiutarono l’invito perché, assordati, otturati dai loro cari o dai loro beni, non riuscirono a scorgervi una chiamata alla libertà da sé stessi per amare un po’ meglio.

La chiamata di Gesù è radicale perché invera la chiamata di Dio ad Abramo: “Vattene dalla tua terra e dalla casa di tuo padre”. Per fare spazio in noi alla parola del Signore occorre innanzitutto uscire dalla casa, dalle cose e dalle parole che ci hanno generato e che ci illudono di non essere stranieri.

E Gesù va anche oltre e aggiunge moglie e figli e la nostra stessa vita; dunque si tratta della libertà del cuore non solo verso il passato, ma anche verso il presente e il futuro

Gesù dice che non si può essere discepoli se non ci si distacca dagli affetti più cari e persino dalla propria vita, o come dice altrove, “se si ama i propri cari più di me”. Come pure se non si porta la propria croce e se non si rinuncia a tutti gli averi.

Dall’insieme di queste sue parole capiamo che non si tratta certo di detestare sé stessi né i cari, ma di rinunciare all’amore di sé così profondamente mescolato ai nostri affetti, e che tiene i cari in ostaggio; rinunciare al possesso di cari e di beni nell’illusione di salvare sé stessi.

È rinuncia all’idolatria dell’io per imparare ad amare un po’ meglio il Signore e gli altri! Questa rinuncia a sé è indispensabile ad ogni amore. Tanto più per vivere l’amore fraterno nella comunità del Signore occorre la libertà di chi rinuncia a salvare la propria vita più e prima di quella degli altri. 

L’appello profetico a rinnegare gli idoli Gesù lo traduce nel rinnegare sé stessi: rinnegare gli idoli è rinnegare la propria brama di uso e abuso degli altri e delle cose. 

Seguire il Signore significa ascoltare e trattenere in noi, come il tesoro più prezioso, la sua parola per obbedirla - per imparare ad amare di più e non di meno, cioè ad amare come lui ci ha amati: nella libertà, nella mitezza, nel restituire l’amata/o a sé stesso, alla sua libertà di figlia/o di Dio, e non a noi. Significa rinunciare a quel nostro modo di amare che cerca il proprio bene e non quello dell’altra/o

È anche questo “portare la propria croce”: rinnegare quell’amore di noi stessi che affligge anche i nostri amori oltre ai nemici. 

Poi con due esempi Gesù ci narra la necessità della rinuncia ai beni per non essere trascinati a confidare in essi. Ci chiama a un’altra fiducia, e più gioiosa: è quel centuplo che riceviamo nel condividere tutto ciò che si ha e si è e nel tentare sempre di nuovo, in ogni nuovo oggi, di praticare l’arte faticosa di amare servendo e risvegliando gli altri, le cose e ogni creatura a sé stessi e non a noi. 

(sr Maria di Bose)

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