Luca continua a presentarci l’insegnamento di Gesù in parabole il cui scopo, più e prima di darci indicazioni su come dovremmo comportarci, ci rivelano ciò che Dio compie attraverso Gesù che in questa sezione dell’Evangelo sviluppa la complessa articolazione tra giustizia e misericordia. Quest’ultima è stata al centro delle due parabole di domenica scorsa: la pecora e la dramma perse; il padre e i due figli, mentre oggi e domenica prossima la Liturgia ci propone un’altra coppia di parabole sul tema della giustizia: l’amministratore che sperperava; l’uomo ricco e Lazzaro. Luca utilizza quasi sempre questo schema di due parabole affiancate che sottolineano aspetti diversi del medesimo tema.
Come le scorse domeniche, Gesù continua a rivolgersi a “tutti”: i discepoli con “i pubblicani, i peccatori i farisei e gli scribi”. È importante quel “tutti” che sottolinea come nessuno manca e che, quello che dice, è per tutti; anche per ciascuno di noi.
Il racconto oggi è quello dell’amministratore che, dopo aver dilapidato i beni del suo padrone, capisce che, scoperto, sarà licenziato. Approfitta allora del breve tempo che gli rimane riducendo drasticamente quanto i debitori dovevano al suo padrone, attirandosi le loro simpatie e così garantendosi una sopravvivenza quando rimarrà senza lavoro. Per questo suo agire viene lodato. Ancora una volta Gesù rompe gli schemi e sorprende lasciando perplessi.
Se, però consideriamo che questa parabola e immediatamente successiva a quella del padre e dei due figli, che il contesto e l’uditorio è il medesimo, è possibile intendere la volontà di una continuità nel messaggio sulla misericordia di Dio, in un modo ugualmente paradossale anche se contrapposto, come due facce della medesima realtà.
Questa parabola non vuole certo proporci di imitare l’amministratore disonesto fino in fondo nella gestione dei beni a lui affidati. Per capirlo bisogna partire interrogandoci su cosa sia quello che gli è stato affidato da gestire. Se il padrone è il Padre e l’amministratore è Gesù, che cosa il primo ha affidato al secondo da amministrare? Ce lo hanno detto le parabole di domenica scorsa: la misericordia che attende non passivamente il ritorno del figlio, che va a cercare la pecora persa, che mette sottosopra la casa fintantoché non riesce a ritrovare quel niente che sono due centesimi, perché tutto ha un grande valore per lui, anche quel niente che è ciascuno di noi. Non per nulla tutto finisce in una grande festa alla quale sono invitati tutti.
Allora la parabola di oggi desidera dirci che uno solo è il modo giusto per “gestire” la misericordia di Dio: la si deve “saccheggiare”, distribuendola largamente, quasi “dilapidandola”. È quello che fa Gesù proprio perché così deve essere “amministrata”, anche se agli occhi del mondo è una truffa; infatti è proprio di questo che Gesù viene accusato dai Farisei e dagli Scribi, dai benpensanti di oggi.
Il Figlio, come amministratore benevolmente “disonesto”, abbassa radicalmente i “debiti” che abbiamo nei confronti del Padre, non li annulla totalmente; manca qualcosa: come colmarlo?
Ce lo dice quel “tutti”, non mancava nessuno attorno a Gesù e tutti sono stati accolti, anche pubblicani e peccatori; pure con loro Gesù si siede a tavola, il segno massimo dell’accoglienza e della condivisione
Ritorna allora l’invito alla disponibilità al lasciarsi cercare e di essere accolti, che stava al centro dell’Evangelo della scorsa domenica come un invito costante e pressante. È questo quello che serve per completare la “riduzione” del nostro debito fino al suo totale annullamento.
Un’ultima sottolineatura sulla “furbizia” dell’economo al di là del fatto che questa è motivata dal suo essere disperato per il licenziamento, non ancora avvenuto ma “in corso”. È un essere scaltri o “avveduti” (come dice più precisamente il termine greco), che va imitato nei confronti delle forze del male, nei confronti delle ricchezze frutto di ingiustizia. Va fatto con l’intelligenza e la tempestività che gli imbroglioni mettono nelle loro imprese truffaldine. È un invito pressante ad agire sempre risolutamente facendo le cose giuste al momento giusto, senza rimandare sempre al domani: “fate quello che va fatto mentre si è ancora in tempo, prima che sia troppo tardi”.
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Quello che fa l’amministratore è un atto disperato e il biblista E. Reinmuth si chiede se questo non potrebbe essere stato l’atto di Dio nel mandare suo Figlio in terra. In fin dei conti, nell’incipit della lettera a gli Ebrei, S. Paolo afferma che Dio, dopo aver parlato “molte volte e in diversi modi”, alla fine, per farci capire ha inviato suo Figlio.
Non potrebbe questa essere stata l’ultima carta disperata giocata da Dio per salvare il creato che gli uomini deturpano saccheggiandolo, o ci vivono subendolo passivamente?
In fin dei conti questi due atteggiamenti non sono quelli dei due figli del padre della seconda parabola di domenica scorsa?
Il ruolo della misericordia del Padre che fa di tutto, prima nell’atteggiamento di attesa del figlio minore, poi per convincere a partecipare alla gioia il maggiore, non è il centro focale?
Davvero allora questa potrebbe essere stata l’ultima carta che Dio ha “giocato” nella sua misericordia senza limite. È stata certamente quella vincitrice, ma a caro prezzo.
(BiGio)
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