L’esperienza del Risorto che Matteo ci trasmette non è una apparizione, non una cristofania, non si tratta ancora della parusia. Si tratta di una presenza discreta e silenziosa che accompagna per tutti i giorni della nostra vita noi e la realtà inadeguata nelle nostre comunità monche, dubbiose, divise e incerte.
Nel racconto della risurrezione di Matteo una prima volta l’angelo al sepolcro e la seconda volta il Signore stesso invita le donne ad andare ad annunciare ai suoi fratelli che li “precede in Galilea” e che là lo vedranno.
C’è un cammino da fare per i discepoli che non è un semplice tornare indietro da Gerusalemme al loro luogo di nascita dove avevano incontrato e, chiamati, iniziato a seguire Gesù. È un ritrovarsi in quel territorio, la Galilea delle Genti, dove Gesù aveva scelto di svolgere il suo ministero di annuncio che il Regno di Dio era ed è già presente. Una terra di transito, di commercio, di carovane di ogni nazionalità e popolazione; una terra di confronto tra culture, religioni, modi di vivere diversi tra di loro e, forse proprio per questo, capaci di attenzione, di curiosità, di accoglienza, di confronto aperto senza paure, preclusioni. Forse anche un modello di vita da accogliere e fare nostro nella nostra realtà globalizzata ma anche spesso ottusa, ripiegata su sé stessa, in difesa del proprio piccolo universo, della roccaforte nella quale ci siamo rinchiusi.
In quella terra simbolo l’Evangelo ci dice che i discepoli vedono Gesù sul monte che “aveva loro indicato”. Non ha un nome questo monte perché, come la Galilea, è un luogo simbolico. Da sempre nelle religioni le alture, a motivo dell’innalzarsi delle loro cime verso il cielo spesso nascoste dalle nuvole, sono considerate le dimore degli dei.
Anche nella Bibbia i monti sono i luoghi dove Dio si manifesta, si rivela: il monte Moria verso il quale Abramo sale con Isacco; il monte Sinài sul quale Mosè incontra il Signore che gli fa dono delle Dieci Parole; il monte Sion sul quale Dio stabilisce la sua Shekinah, la sua Presenza. Le cime dei monti scandiscono anche la vita di Gesù dalle tentazioni alla sua ascensione sono ben sette (numero che indica la pienezza), le beatitudini, la trasfigurazione, il calvario …
Su questo monte in Galilea Gesù si avvicina agli Undici, non sono più dodici, sono una comunità imperfetta come le nostre. Questo verbo ricorre 52 volte in Matteo (contro le 10 il Luca e le 5 in Marco) ma solo due volte il soggetto di questa azione è Gesù: nell’episodio della Trasfigurazione e qui. È il Signore che viene, il Dio con noi che si rende presente e si affianca all’uomo afflitto dall’ignoranza, dalla malattia, dalla sofferenza, dal peccato e, nello stesso tempo diventa un ponte di collegamento con la promessa finale: “Io sono con voi tutti i giorni”. Mediante l’uso di questo verbo Matteo desidera richiamarci e ribadirci continuamente la presenza in Gesù dell’Emmanuel, del Dio con noi.
Abbiamo bisogno di questo continuo ricordo e sollecito; in fin dei conti siamo tutti un po’ come Pietro che, pur avendo riconosciuto il Maestro e aderendo al suo invito, dubita di poter camminare sulle acque subendo il rimbotto da Gesù: “Uomo di poca fede!”. È proprio da questa poca fede e dall’essere comunità imperfetta, carente che ora i discepoli e noi con loro, devono e dobbiamo ripartire seguendo le orme del Risorto sulla nostra Galilea superando ogni limite, aprendo ed attraversando tutte le porte, uscendo dai nostri schemi limitanti.
Fino a questo momento Gesù aveva sempre invitato a andare solo “alle pecore perdute di Israele” (Mt 10,5-6), ma il progetto di salvezza di Dio che aveva avuto inizio con la benedizione data ad Abramo, aveva un valore universale e ora deve giungere a compimento.
Come Giona risalito dopo tre giorni dal ventre del pesce aveva accolto l’invito della missione a Ninive, così Gesù dopo tre giorni nel ventre della terra invia a coloro che inizialmente non erano i destinatari dell’annuncio: si doveva prima compiere la missione di Gesù per Israele ed è giunto il momento di aprirsi anche a tutti gli altri popoli (Gv 10,16).
L’indicazione che Gesù dà è composta da 3 azioni: andate, fate discepoli (battezzando), insegnando (a osservare tutto ciò che vi ho comandato). Non basta il rito senza il proseguo di un’adeguata istruzione e l’insegnamento non è sufficiente senza una totale immersione in Cristo che si innesta, risignificandolo, in quel comune rito ebraico carico di sensi a partire dalla purificazione rituale. Matteo poi sottolinea come non si tratta solo del lieto annuncio portato da Gesù, ma anche della Torà e l’intero insegnamento rabbinico che Gesù ha sempre rispettato completandolo, non sostituendolo.
Alla fine Gesù fa un annuncio che non è una promessa: “io verrò presto”, ma una affermazione: “ecco Io Sono (già) con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”; tutti i nostri giorni sono già ripieni della sua presenza. Con questo Matteo, alla fine del suo Evangelo, ripropone il medesimo annuncio con il quale lo ha inaugurato nel racconto l’Annunciazione: Dio è con noi.
Questa affermazione è allora la sintesi dottrinale che fa luce su tutta la narrazione del primo evangelo. Tutto si capisce veramente solo partendo dalla fine: il tempio è stato distrutto e la Shekhinà ora dimora dove due o tre sono radunati nel none di Gesù. Questa è l’esperienza del Risorto che Matteo ci trasmette. Non si tratta di una apparizione, non di una cristofania, non si tratta ancora della parusia. Si tratta di una presenza discreta e silenziosa che ci accompagna per tutti i giorni della nostra vita.
(BiGio)
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