"Pace a voi" sono le prime parole di Gesù Risorto e le ripete tre volte: perchè e, poi, cos'è 'sta "pace"? inoltre non tanto il potere di perdonare i peccati quanto un avviso a chi non perdona...
Domenica scorsa l’Evangelo di Giovanni di fronte alla tomba vuota invitava a far memoria della Scrittura, delle parole di Gesù, a renderle vive, a farle interloquire con il presente per comprenderlo e chiedeva di iniziare a guardare, a vivere oltre gli orizzonti di tutte le morti amando o cercando di amare come Cristo ha amato e, soprattutto, credendo al suo amore per noi.
In quello stesso giorno, il primo della settimana, i discepoli chiusi nel cenacolo per paura e sconcertati dal racconto di Maria di Magdala e da quanto Pietro e Giovanni avevano visto con i loro occhi, si trovano anche loro a far una esperienza che li sorprende. Vedono Gesù ritto in piedi in mezzo a loro e le prime parole che dice sono “Pace a voi”. Non è un augurio, è una affermazione o, meglio, un dono del tutto gratuito a chi, per la loro condotta, potevano aspettarsi di tutto fuorché un dono da un Gesù con i segni della crocefissione e della sua morte vivi nel suo corpo. Lui “sta in mezzo”, non davanti, non in alto. Il suo amore è unilaterale, non è obbediente a una logica di reciprocità e soprattutto non dipende dal comportamento degli altri. Non c’è una gerarchia di persone che sono più o meno vicine a lui, è uno di loro, tra di loro e tutti hanno la stessa uguale possibilità di relazione con lui. Questo vale anche per noi nella nostra realtà ecclesiale, si chiama “sinodalità” tanto cara a papa Francesco ma fino ad oggi ricordata solo da un Cardinale e un cronista.
“Pace a voi”. In questi 11 versetti Gesù lo dice tre volte, numero perfetto e rappresenta la totalità cosmica: cielo, terra, uomo. Annuncio che divide la pericope odierna in tre parti e coinvolge la realtà di Gesù tra i discepoli, il compito che questo annuncio consegna loro ed infine riguarda tutti noi, gemelli di Tommaso che, con lui potremmo condividere il soprannome di Simone: “Pietro” nel senso che abbiamo la testa dura.
Nel suo discorso di addio nell’Ultima Cena Gesù aveva detto “Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo io la do a voi. Non si turbi il vostro cuore” (Gv 14,27) e ora riafferma questo suo dono sempre all’indicativo presente. Anche oggi noi siamo turbati in un modo che ci appare aver perso la ragione: il clangore incessante delle armi, la volontà di armarsi sempre di più per paura, i profitti legati alla produzione di strumenti di morte in sistemi produttivi che rifioriscono grazie a questa nuova prospettiva e si rigenerano convertendosi alla fabbricazione di armi magari giustificandosi con il fatto che così “almeno” non licenziano gli operai.
In questo nostro mondo così bisognoso di “pace” che cosa significa l’annuncio del Vivente? Non certo che risolve i problemi che stanno sotto ai 57 conflitti attualmente attivi nel mondo facendo così tacere le armi e vivere tutti i popoli in una idilliaca serenità. Dio non ci toglie nessuna patata dal fuoco: significherebbe toglierci la responsabilità (=il peso delle cose) e la libertà. Ci ha affidato la creazione e ci ha dato il compito di custodirla portandola a termine. Una creazione che non è nostra proprietà e che saremo chiamati a restituire (sperando che non siamo le sue macerie o, peggio, le sue ceneri).
La “pace” che lui ci ha donato, ci dona e ci donerà sempre è la riconciliazione tra cielo e terra acquisita attraverso il dono della sua vita riscattando l’incapacità dell’uomo di rimanere fedele all’Alleanza con il Padre. Lui rimane fedele a chi l’ha abbandonato e la questa colpa non impedisce loro il futuro e la relazione con lui. Chi ama non imputa a nessuno le ferite inflitte a chiunque, anzi Gesù ci abilita e ci incoraggia ad amare in modo analogo al suo, cioè a perdonare e ce lo affida come compito. È questo che fa quando alita su di loro, su di noi, donandoci il suo Spirito, ci infonde la capacità di vivere come lui ha vissuto, un dono per gli altri. Qui le parole di Gesù suonano come avvertimento: “a chi non rimetterete i peccati resteranno non rimessi”, cioè sarà vostra responsabilità aver tenuto il peccatore nella prigionia del male commesso, averlo reso ostaggio del proprio passato: io non ho fatto così.
Riconciliandoci con il Padre, Gesù ci ha “giustificati” per questo siamo “in pace con Dio” (Rm 5,1). Questo ci rende operatori di pace (Mt 5,9) nel nostro quotidiano, capaci di aprire continuamente cantieri di pace, tutti quelli possibili, con tutti come ci invita S. Paolo (Rm 12,18). Non una pace ideale, ma quella possibile, concreta smettendo di piangere su quella che non abbiamo o non c’è. Ci è chiesto di avere quelle “viscere di misericordia” del Padre dalle quale scaturisce solo vita e non altro. Nel concreto del nostro quotidiano significa partire dal rispetto del diritto, della giustizia, denunciando le prevaricazioni di qualsiasi tipo ma senza fermarsi qua, ricostruendo rispetto dove c’è diffidenza fonte di violenza, condividendo la fatica di rilanciare relazioni interrotte. Riconoscendo e dando corpo a tutte quelle realtà che già agiscono in questa direzione senza preconcetti.
Questo è quello che con il nostro gemello Tommaso ci farà stare diritti in piedi davanti al Signore riconoscendolo come il Vivente superando non tanto l’incredulità che invece alcuni leggono come espressione di meraviglia come accade anche a noi quando ad una notizia esplodiamo un “No, non è possibile!”, ma appunto pensando concreto l’impossibile di Dio, sperando sempre al di là di ogni speranza (Rm 4,18).
(BiGio)
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