La domanda che si pongono le donne che vanno al sepolcro è la medesima che ciascuno di noi si fa difronte alla morte di una persona, quella del suo senso come quello del “vuoto” che lascia in noi. Cercano e trovano una risposta.
La Liturgia quest’anno ci fa incontrare nella Veglia il racconto della Risurrezione di Luca mentre, come consueto, nel giorno di Pasqua è il racconto dell’Evangelo di Giovanni che inizia ad accompagnare la festa che dura otto giorni.
Tutto sembrava essersi concluso con la sepoltura fatta in fretta senza la rituale unzione del corpo il venerdì seguito dal riposo sabbatico. Il racconto riprende annotando che “Il primo giorno della settimana” le donne vanno con gli aromi necessari e trovano la tomba aperta e vuota. Se si fa memoria del racconto della creazione in Genesi, il primo giorno è quello nel quale Dio inizia la sua opera e il sesto giorno (venerdì) quello nel quale crea l’uomo con il quale la completa ed è il giorno della morte di Gesù che sfocerà nella sua risurrezione. Avviene cioè un capovolgimento: è con l’uomo risorto, nel superamento della morte, della sua caducità che instaura una nuova creazione o, meglio, che questa viene rinnovata e inizia il cammino verso il giorno che non avrà mai fine.
L’Evangelo continua con il racconto delle donne davanti al sepolcro vuoto, la domanda che si pongono è la medesima che ciascuno di noi si fa difronte alla morte di una persona, quella del suo senso come quello del “vuoto” che lascia in noi. Sono sconcertate e vedono venire loro incontro due uomini in abito sfolgorante: è il medesimo termine usato da Luca nella Trasfigurazione ed a questo episodio è necessario riferirsi. In quel caso Mosè ed Elia parlavano con Gesù del suo “esodo” o meglio il Signore comprendeva, confrontandosi con l’intera Scrittura, quanto era chiamato a vivere per compiere la missione affidatagli dal Padre. Oggi continuano il loro compito sulla medesima falsariga.
Le donne sono piene del dolore della morte di Gesù e dai due personaggi che le hanno avvicinate si sentono rivolgere una domanda. C’è chi in questa legge un tono di rimprovero, io invece percepisco molta delicata tenerezza nei confronti di una fragilità facilmente intuibile: “Perché cercate tra i morti colui che è il Vivente?”. Il Vivente. Vale anche per noi di fronte alla morte di una persona cara; per superare il dolore è necessario scegliere se piangerla come morta o sperimentarla come viva, continuare a percepirla vicino a noi seppur in una altra dimensione a noi non totalmente estranea. Non è fermandoci di fronte alla tomba che ritroviamo chi ha compiuto la sua presenza nella nostra realtà, ma facendo memoria di quanto vissuto assieme intendendo questo termine in senso biblico, rendendo attuali le esperienze comuni in nuove situazioni, rinnovandole. Nulla di statico come una fotografia, ma situazioni dinamiche che, dalle radici di quanto vissuto assieme, sbocciano nuove.
È per questo che i due personaggi invitano le donne a ricordarsi, a far memoria di “come vi parlò quando era ancora in Galilea” ed esse “si ricordarono delle sue parole”. Allora possono tornare dagli undici e a tutti i discepoli annunciando loro anche il sepolcro vuoto, ma soprattutto quanto i due personaggi sfolgoranti avevano iniziato a far ricordare loro, quello Gesù aveva detto a riguardo della sua morte. Un “vaneggiamento” incredibile? La testimonianza delle donne in quel mondo ebraico non era considerata attendibile, tanto meno quel racconto di fronte al quale si fermano alla superficie e non riescono a cogliere l’invito a far memoria. Pietro forse intuisce qualcosa, vuole verificare di persona, “corre” al sepolcro dove vede solo i teli per terra “e tornò indietro, pieno di stupore”. Quelle donne, invece, sono diventate le prime testimoni della risurrezione perché avevano condiviso tutto il suo amore e ora lo porgevano con le loro mani, con ciò che poteva allietare il loro dolore: profumi, unguenti, teli di lino che non vanno sprecati ma sparsi sull'umanità.
Anche l’Evangelista Giovanni sottolinea come la fede pasquale non nasce dalla semplice visione di una tomba vuota. È solo l’intelligenza delle Scritture che possono illuminare i fatti ieri come oggi e domani. Solo così si può iniziare a credere (Gv 20,8-9) altrimenti c’è solo ignoranza, incapacità di leggere l’accaduto e non si riesce a comprendere la novità impensabile, a volte sconcertante, dell’agire di Dio, al più si rimane sconcertati.
Nel racconto di Giovanni appare un’urgenza che porta a correre; corre Maria, corrono Pietro e il discepolo che Gesù amava e appare il bisogno di comprendere la Scrittura. Solo questa può far vedere nei segni di morte lo sfavillio della risurrezione nella reciprocità di un affetto consolidato dalla condivisione della vita, perché la fede non è mai disgiunta dall’assunzione di responsabilità di un progetto capace di diventare comune. Avere la fede della risurrezione significa saper guardare oltre la morte, oltre le morti che costellano le nostre vite: lutti, separazioni, abbandoni, fine di relazioni e di amicizie. Ma possiamo essere anche noi fonte di morte con le nostre chiusure egoistiche, arroganze, abusi, violenze, manipolazioni, indifferenze. La storia dei nostri giorni ne è piena: dalla politica, all’economia, dalle guerre sanguinose e irrefrenabili, alla società, ai conflitti di genere, all’incapacità di riconosce l’amore ovunque e comunque questo si manifesti in ogni sua forma. La risurrezione ci invita a guardare, a vivere oltre gli orizzonti di tutte le morti amando o cercando di amare come Cristo ha amato e, soprattutto, credendo al suo amore per noi.
(BiGio)
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