Un invito ad essere concreti
Il luogo è Gerusalemme, il fatto è una benedizione che, all'inizio, è attesa ma non può essere data sul popolo di Israele perché al sacerdote Zaccaria è stata tolta la parola per la sua incredulità. Qui ora, invece, è stata data ma non più nel tempio da un sacerdote, non più solo su Israele, ma da Gesù in un luogo aperto e sugli apostoli che, a loro volta, la restituiscono lodando il Signore ("bene-dire" e "lodare" sono sinonimi).
In mezzo, il racconto dell'evento nella storia dell'uomo di Gesù di Nazaret che lui stesso, come aveva fatto coni discepoli di Emmaus, riassume nei versetti dell'Evangelo di questa domenica “aprendo la mente” degli apostoli (e con la loro, la nostra) alla comprensione delle Scritture, come sta scritto nel versetto immediatamente precedente al brano odierno.
Sarebbe inutile cercare quelle parole di Gesù in uno o più brani biblici perché, nella tradizione ebraica, i rimandi biblici non sono mai "prove scritturistiche", sono piuttosto delle efficaci sintesi tese a far ricordare un insegnamento. La radice della parola ebraica le definisce come delle perle che vengono inanellate su di un filo prezioso.
Siamo invece invitati a porre la nostra attenzione sul fatto che i discepoli sono innanzitutto chiamati ad essere "testimoni" di ciò che Gesù ha fatto della e nella sua vita. È questo che conta e, l’esserne testimoni, significa non tanto il “raccontarlo”, quanto il “viverlo” ed interpretarlo. Vale a dire che l’annuncio cristiano non è una questione fondamentalmente intellettuale, bensì una prassi, un modo di essere. Lo conferma anche il fatto che le prime parole pronunciate da Gesù nell’Evangelo di Giovanni è: “Che cercate? … Venite e vedrete!” e non "sedetevi qua che vi racconto ...".
Non può non sorprendere poi che gli apostoli, dopo la partenza di Gesù, ritornano a Gerusalemme con grande gioia mentre ci si sarebbe potuto aspettare un atteggiamento di tristezza o di sgomento come dopo la sua morte.
No! Ricoperti della sua benedizione ora gli apostoli vivono apertamente il loro quotidiano, il loro essere ebrei, continuano a frequentare ogni giorno il tempio, così diventano loro stessi benedizione. Oramai un grande movimento circolare è stato innestato: a loro, a noi, il compito di non fermarlo, non solo con le nostre parole, ma soprattutto con il nostro agire nella quotidianità, continuando a fare quello che Gesù ha fatto della sua vita: ha operato per la realizzazione delle slalom, della pace, della riconciliazione dell'umanità con il Padre. Non fornendo strumenti all'uomo, ma facendosi mezzo, tramite della sua misericordia. Questo significa, in tutte le Eucaristie, fare memoria cioè rendere attuale, presente (vale sempre la pena di rammentare che non è solo un semplice ricordare...) pane spezzato e vino condiviso, accogliendo, dando da mangiare, da bere, vestendo, visitando, proteggendo i deboli ... senza sfuggire alla realizzazione di queste parole appena le abbiamo pronunciate: è questo il senso di quel: “restate in città”.
È l’invito ad avere sempre davanti non il nostro interesse personale, bensì le esigenze del bene comune e dell'altro fatto di condivisione, solidarietà, aiuto reciproco, sobrietà, confronto, accoglienza, misericordia nelle realtà nelle quali la vita e le nostre scelte personali ci hanno chiamato ad operare: lavoro, amicizie, impegni sociali, ecclesiali, famiglia, coppia … sfuggendo da tutto ciò che ne è il
(BiGio)
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