Marco Cè sentiva una cura sopra tutte: che le sue parole non dessero "scandalo", che non turbassero cuore e mente dell'anima più umile a lui affidata. Marco Cè guidava accompagnando.È stato un uomo universale della Chiesa. Universale per la sua capacità di farsi prossimo all'altro.
Il Patriarca Marco Cè, oggi vive presso il Padre da otto anni. La sua figura alla luce del pontificato di Francesco all’interno dei quali ha vissuto per pochi mesi, induce a riflessioni che vanno ben oltre l'espressione del ricordo della perdita di una grande guida spirituale, e non solo, certo, per la sua città e la sua Chiesa. La straordinaria misura, il quasi "verginale" pudore con cui ha condotto la sua testimonianza e la sua missione, ne hanno forse nascosto al cosiddetto "grande pubblico" il loro eccezionale valore. Alieno da ogni "manifestazione", con accanto per anni pochissimi fraterni amici, più che collaboratori, Marco Cè è stato, tuttavia, una delle personalità più importanti della Chiesa post-conciliare.
La sua figura può essere comparata soltanto a quella del cardinale Martini. Una profonda amicizia e un'incondizionata stima li legava. Si fondavano su una "esegesi" del Concilio che avvertivano entrambi sostanzialmente "minoritaria" nella vita della Chiesa e soprattutto ai vertici della sua gerarchia. Da un lato, era necessario opporsi con la massima energia a ogni tentativo di "addomesticare" il messaggio del Concilio, riconducendolo sic et simpliciter nell'ambito della tradizione — dall'altro, altrettanto urgente appariva combatterne una lettura che definirei "immanentistica", in una chiave genericamente dialogante e "acculturante". Per Marco Cè, come per Martini, era il paradosso della fede, la pascaliana "scommessa", che andavano presentati al nuovo "secolo" e messi a confronto senza timore con il suo tumultuoso cantiere.
Fino in fondo occorreva ascoltare le "ragioni" del secolo, comprenderne i linguaggi per quanto confusi, ma nient'affatto per appartenervi e neppure per cercare compromessi o facili "concordati" — tantomeno per contare nei suoi "affari" come una potenza tra le altre. Posizione ardua da tenere, tale da suscitare incomprensioni da parte sia dei "restauratori" che degli astratti "novatores". Posizione sofferta, che è costata a Marco Cè non pochi momenti di solitudine — e anche di angoscia per la sua Chiesa. Quasi silenziosa angoscia — poiché Marco Cè sentiva una cura sopra tutte: che le sue parole non dessero "scandalo", che non turbassero cuore e mente dell'anima più umile a lui affidata. Come volesse, nella sua angelica modestia, crescere, maturare, comprendere con essa.
Marco Cè guidava accompagnando. E questo l'ha fatto amare da tutti, nella sua città come nelle missioni lontane che lui ha voluto e fondato, come dai più dotti teologi postconciliari. È stato un uomo universale della Chiesa. Universale per la sua capacità di farsi prossimo all'altro e in questo "movimento" ritrovare sé stesso, le ragioni della propria fede, la certezza della propria speranza. Questo uomo, che è vissuto sempre nello "stile" che ora papa Francesco insegna, senza mai in nessun modo esibirlo, è segno di quella cristianità che tutti, credenti e non credenti, debbono augurarsi che avvenga.
(da il ricordo di Massimo Cacciari su Repubblica)
“Gesù è il Figlio di Dio ‘mite e umile di cuore’. Non c’è altra strada per andare a lui, che guardarlo e partecipare ai suoi stessi sentimenti, noi che siamo ‘vivi in lui’. Camminare verso di lui, rimanendo in lui, significa assumere la sua ‘mitezza e umiltà di cuore’ come stile inderogabile delle nostre relazioni. Agli anni che passano non chiediamo altro che conoscere Cristo, per amarlo sempre più a farlo conoscere a tanti fratelli”. (Marco Ce')
Il Patriarca Marco Cè, oggi vive presso il Padre da otto anni. La sua figura alla luce del pontificato di Francesco all’interno dei quali ha vissuto per pochi mesi, induce a riflessioni che vanno ben oltre l'espressione del ricordo della perdita di una grande guida spirituale, e non solo, certo, per la sua città e la sua Chiesa. La straordinaria misura, il quasi "verginale" pudore con cui ha condotto la sua testimonianza e la sua missione, ne hanno forse nascosto al cosiddetto "grande pubblico" il loro eccezionale valore. Alieno da ogni "manifestazione", con accanto per anni pochissimi fraterni amici, più che collaboratori, Marco Cè è stato, tuttavia, una delle personalità più importanti della Chiesa post-conciliare.
La sua figura può essere comparata soltanto a quella del cardinale Martini. Una profonda amicizia e un'incondizionata stima li legava. Si fondavano su una "esegesi" del Concilio che avvertivano entrambi sostanzialmente "minoritaria" nella vita della Chiesa e soprattutto ai vertici della sua gerarchia. Da un lato, era necessario opporsi con la massima energia a ogni tentativo di "addomesticare" il messaggio del Concilio, riconducendolo sic et simpliciter nell'ambito della tradizione — dall'altro, altrettanto urgente appariva combatterne una lettura che definirei "immanentistica", in una chiave genericamente dialogante e "acculturante". Per Marco Cè, come per Martini, era il paradosso della fede, la pascaliana "scommessa", che andavano presentati al nuovo "secolo" e messi a confronto senza timore con il suo tumultuoso cantiere.
Fino in fondo occorreva ascoltare le "ragioni" del secolo, comprenderne i linguaggi per quanto confusi, ma nient'affatto per appartenervi e neppure per cercare compromessi o facili "concordati" — tantomeno per contare nei suoi "affari" come una potenza tra le altre. Posizione ardua da tenere, tale da suscitare incomprensioni da parte sia dei "restauratori" che degli astratti "novatores". Posizione sofferta, che è costata a Marco Cè non pochi momenti di solitudine — e anche di angoscia per la sua Chiesa. Quasi silenziosa angoscia — poiché Marco Cè sentiva una cura sopra tutte: che le sue parole non dessero "scandalo", che non turbassero cuore e mente dell'anima più umile a lui affidata. Come volesse, nella sua angelica modestia, crescere, maturare, comprendere con essa.
Marco Cè guidava accompagnando. E questo l'ha fatto amare da tutti, nella sua città come nelle missioni lontane che lui ha voluto e fondato, come dai più dotti teologi postconciliari. È stato un uomo universale della Chiesa. Universale per la sua capacità di farsi prossimo all'altro e in questo "movimento" ritrovare sé stesso, le ragioni della propria fede, la certezza della propria speranza. Questo uomo, che è vissuto sempre nello "stile" che ora papa Francesco insegna, senza mai in nessun modo esibirlo, è segno di quella cristianità che tutti, credenti e non credenti, debbono augurarsi che avvenga.
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