C'è un certo agire ecclesiale che crea scarti ed emargina, l'agire di Dio, all'opposto, sa operare proprio attraverso ciò che non è riconosciuto: «Quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla, Dio lo ha scelto» (cfr. 1Cor 1,28).
Un padrone e la sua vigna: quindi lavoro e frutti. Ma soprattutto passione, grande passione. Così Isaia è stato ispirato a scrivere un canto d'amore per la vigna, per dire del rapporto fra Dio e il suo popolo. E la passione per la vigna porta Dio a fare l'impossibile: «Che cosa dovevo fare ancora che io non abbia fatto?»; e, nella parabola del Vangelo, il padrone manda dei servi, poi altri, e poi manda il figlio. L'immagine è chiara ed efficace: che cosa Dio doveva fare di più per la sua vigna che è Israele, che siamo noi?
È l'immagine di un Dio appassionato e coinvolto. È così preso che sembra minacciare la vigna, ma perché vuole smuoverla, vuole smuovere noi. Infatti si tradisce proprio quando dice cosa vuole fare per condannare la vigna infruttuosa: in tale denuncia, continua a chiamarla la «mia» vigna. L'aggettivo possessivo che gli sfugge tradisce il suo attaccamento, il suo legame, l'alleanza, che non riesce a spezzare. Bravi o peccatori, siamo sempre la vite amata da Dio. È questa passione di Dio per noi che ha la forza di convertirci, più delle minacce presenti nel canto. Una passione che arriva fino alla croce.
La rovina della vigna non è causata da un Dio vendicativo, ma dall'atteggiamento devastatore e saccheggiatore degli uomini: se si toglie la cura per la custodia della parola di Dio, del Vangelo, la comunità credente si trova devastata.
Oggi possiamo chiederci quali sono i segni della rovina, di una comunità, di una Chiesa, di una società e quali ne siano le cause. Ebbene, Isaia dice, nel cantico della vigna, che i segni non sono tanto l'aver dimenticato il volto di Dio, quanto l'aver ferito il volto dei fratelli: «Dio si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi». La vigna è devastata e saccheggiata quando viene meno la giustizia, la rettitudine, quando prevale la violenza e il grido dei poveri.
La parabola dei contadini che si rifiutano di dare i frutti della vigna al padrone fino a ucciderne il figlio denuncia il fatto che essi sono mossi dalla sete del potere. Quando il padrone manda suo figlio, essi dicono: «Costui è l'erede. Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità!». È sempre la brama del potere che porta l'uomo al rifiuto di Dio: poter mangiare dell'albero della conoscenza, costruire una torre che arriva fino a mettersi al posto di Dio, farsi un idolo come il vitello d'oro per dire che ci è salvati da se stessi e non ad opera di Dio…
Il potere, il denaro, il successo come scopo della vita. Mentre il brano della seconda Lettura proclama, come un grande e formidabile manifesto, che cosa sia l'umanesimo cristiano: «Quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, ciò che è virtù e merita lode». Significa che tutto ciò che è veramente umano è, allo stesso modo, veramente cristiano, e viceversa. Essere credenti vuol dire esercitare un'umanità vera e matura, una qualità di vita, un vivere bello, ad immagine della limpida umanità di Gesù.
Ci sono due modi di agire opposti: quello dei contadini e quello di Dio. Il rifiuto dei contadini denuncia il rischio, sempre presente nella Chiesa, di far propria la dimensione religiosa a cui si dovrebbe essere solo a servizio. È il pericolo, per coloro che svolgono ruoli di dirigenza, di considerare solo la propria visione e di dare valore perenne e assoluto a quelle che sono le proprie scelte ecclesiali. Tutto questo porta a forme di rifiuto: non ascolto, non apprezzamento dell'altro, non accoglienza, emarginazione, disinteresse. Invece Dio prende proprio ciò che è religiosamente scartato e ne fa il fondamento della salvezza. Gesù è la pietra scartata dai costruttori, gli uomini religiosi, che il Padre ha fatto diventare umanità abitata da Dio, dove ogni altra umanità ferita e scartata può trovare riscatto e liberazione. C'è un certo agire ecclesiale che crea scarti ed emargina, l'agire di Dio, all'opposto, sa operare proprio attraverso ciò che non è riconosciuto: «Quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla, Dio lo ha scelto» (cfr. 1Cor 1,28).
«A voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti». Non si parla di sostituzione del popolo eletto. Infatti la parabola narra la sostituzione dei contadini, non della vigna! Il «popolo» che produce frutti, letteralmente indica «gente, persone», con una formulazione quindi generica. Chi sono?
Si può interpretare facendo riferimento al contesto del Vangelo. Sono «pubblicani e prostitute», che si sono pentiti e così sono passati dal «no» al «sì» a Dio (brano precedente). Sono poi «cattivi e buoni» che sono stati condotti al banchetto nuziale, dopo che gli invitati, che sono ancora i capi religiosi, hanno rifiutato l'invito (brano seguente). Il frutto che un certo mondo religioso non ha voluto consegnare al proprietario della vigna, sarà invece prodotto proprio da quelli che erano giudicati esclusi dal Regno e non invitati ad esso.
Infine, è possibile interpretare che il vero popolo, il vero Israele non sia altro che Cristo stesso, «pietra angolare», scartata dai capi religiosi, ma che Dio ha scelto e voluto come fondamento della storia della salvezza. Lui, nella sua umanità, è il popolo fedele, che dà i frutti a suo tempo, che vive il suo rapporto con il Padre in totale confidenza e fiducia, e per questo porta la pace nel mondo, costituendo così il vero popolo del Signore, che vive di Lui e della sua salvezza.
(Alberto Vianello)
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