Ogni guerra è sinonimo di atrocità. In risposta a quelle atrocità, in ogni guerra l'opinione pubblica a un certo punto si unisce per chiedere la fine dei combattimenti e cercare una soluzione. La battaglia di narrazioni e di informazione in un conflitto polarizzante come quello israelo-palestinese non è purtroppo nulla di nuovo. Mai come questa volta, però, misinformazione e social media hanno un ruolo nel dividere l'opinione pubblica, fomentare la violenza e il prosieguo del conflitto.
La misinformazione polarizza le narrazioni, fa perdere ogni verità condivisa e punto di accordo. Eppure un punto comune dovrebbe essere semplice da trovare: ogni perdita civile è una perdita enorme e va evitata. In questo clima in cui nessuno crede a nulla, in cui ci aggrappiamo alle nostre opinioni preconcette e alla nostra verità di parte, nessuno dei due belligeranti ha un incentivo a perseguire una de-escalation. Al contrario, tanto Israele quanto Hamas possono "giustificare" i crimini di guerra commessi (Human Rights Watch ha già condannato entrambe), utilizzando il dubbio per incolpare sempre e comunque l'altra parte. Episodi controversi (il macabro e assurdo dettaglio sui bambini decapitati, l'esplosione all'ospedale Al-Ahli o lungo il corridoio di evacuazione tra nord e sud della Striscia di Gaza) alimentano il whataboutism, il rispondere a una accusa con un'altra accusa. Tanto più che nella nebbia informativa creata dalla misinformazione - e dal fatto che l'accesso mediatico a Gaza è altamente ristretto- ricercatori indipendenti, specialisti di OSINT (intelligenza a fonti aperte) e operatori umanitari fanno fatica a trovare prove e risposte che assegnino responsabilità chiare.
Di cosa si parla in questo articolo di Marie Durrieu (dottoranda associata in in scienze politiche e relazioni internazionali presso l'Institut de Recherche Stratégique de l'École Militaire, Sciences Po):
1) Cos'è e come funziona la misinformazione
2) Un esempio: il caso dell'ospedale Al-Ahli
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