Il tributo di una maggiore umanità

La sentenza di Gesù non rappresenta la concezione di due sfere separate (quella sociale e quella religiosa). La risposta di Gesù, invece, è tutt'altra: più coerente e rivoluzionaria. 


La sentenza di Gesù è stata spesso male interpretata. «Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» non rappresenta la concezione delle due sfere separate: nell'ambito sociale il cristiano dovrebbe essere sempre sottomesso al potere politico, mentre l'ambito religioso sarebbe solo quello racchiuso in chiesa e nella parrocchia, dove si fanno le proprie devozioni e si vivono le attività pastorali. La risposta di Gesù, invece, è tutt'altra: più coerente e rivoluzionaria. Sono gli studi recenti sul Vangelo che ce lo dicono (non delle letture "progressiste").
In antico, i gesti erano più importanti delle parole. Bisogna allora soffermarsi maggiormente su ciò che precede la sentenza. Gesù chiede di fargli vedere una moneta e interroga su chi raffigura «l'immagine» e di chi è «l’iscrizione». La Legge proibiva di farsi qualsiasi immagine di persone o di animali, perché era un modo per rendere loro un culto. Mentre l'iscrizione sulla moneta diceva: «Tiberio Cesare Augusto figlio del divino Cesare sacerdote sommo». Dunque celebrava l'imperatore come un dio. Perciò la moneta del tributo portava i segni inequivocabili dell'idolatria, assolutamente proibita a un credente.
«A Cesare date (letteralmente: «restituite») quello che è di Cesare», risponde Gesù. Il cristiano vive nel mondo e nella società, dà il suo contributo all'edificazione di un vivere fra gli uomini più positivo e rispetta le leggi. Ma se il potere si erge ad assoluto, il cristiano non è chiamato ad obbedire lo stesso, anzi. Vorrebbe dire asservirsi a un falso dio e rinnegare il Signore. Se l'imperatore esige per sé ciò che spetta solo a Dio, come l'adorazione, il cristiano non è tenuto a darla. Solo Dio è Signore della vita: ogni potere che non la rappresenta e non la promuove va disobbedito.
 
Il credente si pone in questa dialettica fra Cesare e Dio, sapendo di essere «straniero e pellegrino sulla terra» (Eb 11,13), poiché ha la cittadinanza nei cieli (cfr. Fil 3,20). Viviamo una fedeltà alla terra e alla città aspettando che si realizzi la terra e la città nuove, quelle che sono dono di Dio, dove tutti i popoli saranno riconosciuti e potranno vivere nella fraternità.
Il mondo, poi, è uscito dalle mani di Dio ed è stato messo nelle mani degli uomini. Perciò il ridare a Dio quello che è di Dio, per il credente comporta il discernere e l'operare perché la società, nei suoi ordinamenti e nelle sue istituzioni, possa corrispondere ai requisiti della giustizia e del diritto. Requisiti che contraddistinguono proprio l'opera e il frutto del Messia. Attendiamo i tempi finali definitivi della giustizia e della pace, perciò è atto di culto a Dio, compiuto nel nostro tempo, operare secondo questi valori e respingere ogni politica che vada in senso contrario.
 
«L'immagine» rinvia all'uomo e alla donna che, nella loro relazione d'amore, sono creati a immagine di Dio. L'iscrizione rinvia, invece, a un passo di Isaia, dove il profeta designa l'appartenenza dell'uomo a Dio. I convertiti alla fede nel Dio di Israele porteranno sulla mano l'iscrizione «Del Signore», per dire: «Io appartengo al Signore» (Is 44,5). Perciò le parole di Gesù ci inducono a domandarci: a chi appartengo? Chi è il mio Signore? Vivo l'amore, che rende Dio presente nel mondo attraverso la mia umanità?
In definitiva, possiamo dire che ciò che è di Dio è anche, propriamente, ciò che è dell'uomo e nell'uomo. Perciò rendere a Dio ciò che è suo comporta il compito dell'uomo di crescere in umanità, di umanizzare il mondo dei suoi rapporti.
 
(Alberto Vianello)

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