Lo scorso 11 ottobre, giorno dell’anniversario dell’apertura del concilio Vaticano II , ha definitivamente chiuso la Casa Editrice Dehoniane (e con lei la storica Marietti fondata nel 1820) , che nacque proprio nel grembo di quella primavera della Chiesa che fu l’assise conciliare e che, da una intuizione dei Padri della Congregazione del Sacro Cuore, spiccò il volo, pubblicando in questi sessant’anni opere di approfondimento della fede e di teologia, nonché alcune delle riviste più significative del pensiero cattolico.
Non è solo sgomento e senso di amarezza quello che si prova nel constatare la fine di una delle più importanti case editrici cattoliche nella crisi dell’editoria, acuita dalla pandemia. C’è anche — e questo sentimento auspichiamo si faccia spazio in ogni settore della vita ecclesiale — una sfida sempre aperta che attende di essere colta. Con l’avvertenza di evitare — come Papa Francesco ci ricorda spesso — quei trucchi e quegli infingimenti clericali che, spesso, ci fanno restare immobili anche davanti ai problemi, inducendoci a procedere “tirando a campare” finché si può e finché dura.
Ma oggi, una riflessione urge. La fede di certo non si impara sui libri né può essere generata dalla teologia. Ma non c’è fede cristiana che non abbia bisogno di crescere, di approfondirsi.
Quando la fede non è pensata, non coltiva il senso critico, non ha gli strumenti adeguati per accedere alla Parola di Dio, alla dottrina e alla liturgia, finisce per restare prigioniera o di uno sterile devozionismo fine a se stesso o, ancor peggio, della superstizione.
Le questioni implicate nel fallimento di una casa editrice sono così numerose e varie, che mi limiterò a segnalarle soltanto, come per lanciare una pietra nello stagno. La prima: la separazione tra fede e cultura, che il gesuita Michael Paul Gallagher definiva «un grande dramma di oggi».
Se siamo onesti, dovremmo fare un mea culpa: abbiamo insistito così tanto sul fatto che la cultura non è tutto, che la teologia è una cosa difficile che complica la vita, che alla fine ciò che conta è essere santi, che è successo il peggio: alimentiamo un cristianesimo infantile e superficiale, spesso superstizioso, e ci teniamo a distanza da tutto ciò che interpella la nostra intelligenza e il nostro spirito.
E ci sono generazioni di preti che sono spesso cresciuti con questo assunto, talvolta ripetuto loro anche dai rispettivi vescovi: non si diventa preti per studiare, ciò che conta alla fine è l’attività pastorale. Peccato, però, che una pastorale che comprenda l’annuncio della fede e la guida spirituale delle persone....
L'intero interessante intervento di Paolo Cosentino sull'Osservatore del 16 ottobre a questo link:
https://www.osservatoreromano.va/it/news/2021-10/quo-236/quando-muore-un-libro.html
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