Una Parola consegnataci da ritradurre nel nostro oggi attraverso il dono della propria vita. Questo ci è chiesto sia il fondamento dal quale far "pendere" ogni nostra azione
Domenica scorsa si è concluso l’itinerario che la liturgia attraverso Marco ci ha fatto fare dall’inizio di quest’anno liturgico prima presentandoci Gesù di Nazareth uomo e Dio, figlio dell’uomo e figlio di Dio e, poi, le esigenze della sequela e il come seguirlo. L’episodio di domenica scorsa, quello dell’incontro tra Bartimeo e Gesù, era la sintesi del percorso tipo di coloro che desiderano seguire il Signore, a partire dall’incontro personale con lui. Questo è quell’itinerario preparato per molti di cui parla Gesù, che consente a molti (cioè a tutti secondo la parola delle Scritture Ebraiche) di stare già da ora alla destra di Dio. La sequela, cioè, è una possibilità concreta per tutti, credenti o meno, persino per coloro che sono esclusi dalla società, che sono spinti e lasciati ai suoi margini. Lo è perché tutti, in un momento della loro vita, possono incontrare il Signore, percepire la possibilità di un rapporto tu-per-tu, personale e “singolare”, sentirsi accolto, al centro della sua attenzione e poter così esprimere la propria sofferenza, i propri desideri, chiedendo con fiducia l’aiuto per poterne uscire; venire e sentirsi riconosciuti da quel Signore ed iniziare, senza tentennamenti, a seguirlo.
Queste tre domeniche che ci conducono alla festa di Cristo Re, sintesi del cammino percorso, ci indicano che tutti abbiamo due possibilità: vivere la parola dell’amore di Dio e del prossimo, oppure quella della chiusura nel “fariseismo”. Tra queste due possibilità Marco ci prospetterà l’inedito della venuta definitiva del Signore.
Nell’Evangelo di oggi c’è un confronto tra Maestri, uno dei tanti che anche oggi sono il sale della ricerca della volontà di Dio tra i credenti. Chi ha avuto occasione di seguirne anche uno solo in una scuola talmudica odierna, sa quale ricchezza contiene. Qui è tra Gesù e uno Scriba che lo avvicina chiedendogli qual è il primo dei comandamenti o, più precisamente, qual è la Mitzwot, il “precetto” che tra i 613 fonda e dal quale dipendono tutti gli altri. Noi cristiani in genere ne diamo una lettura negativa ma, in realtà, queste hanno lo scopo di aiutare il credente a mettersi in ogni momento della sua giornata in “comunicazione” con il Signore, per realizzare la sua volontà nel quotidiano (il termine mitzwot viene da una radice ebraica che significa appunto mettere in rapporto, in comunicazione due realtà).
Era questo un dibattito nel periodo nel quale è vissuto Gesù, ma che ha una sua valenza anche oggi. La domanda che qui ci viene posta è su cosa noi oggi fondiamo la nostra vita, quale è il valore principale dal quale dipendono tutte le nostre azioni. Facilmente, se ci viene posta questa domanda, rimaniamo sorpresi, il porci questo interrogativo sconcerta e la risposta, almeno in prima battuta, incerta. Ma è una questione fondamentale e fondante in ogni vita.
Gesù risponde: “Il primo è: Ascolta Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza. Il secondo è questo: amerai il tuo prossimo come te stesso” e, poi, aggiunge: “Non c’è altro comandamento più grande di questi”.
Lo Scriba ha chiesto un comandamento, Gesù risponde proponendone due, affermando che sono una cosa sola. Se abbiamo seguito il cammino che ci ha proposto Marco, la cosa non dovrebbe sorprenderci più di tanto: possiamo amare l’uomo e, senza saperlo, amando lui avere a che fare con Dio; possiamo amare Dio e, senza saperlo, incontrare un Dio che ci provoca ad amare uomini fino in fondo. Sono due facce della medesima medaglia: prima di tutto “ascolta” (un presente imperativo), se ascolterai “amerai” (un futuro). Vale a dire che amare apre al futuro all'interno di una relazione e, questo, presuppone l’ascolto dell'altro. Non per nulla “l'amare il Signore” è prima di tutto "ascoltarlo" (Deut 6,4).
La capacità prima dell’amare è dunque l’ascoltare. Se ami sei segno efficace della presenza di Dio nel mondo, facendo incontrare il Signore con la storia che gli uomini sono chiamati a vivere in questo mondo che è il suo mondo.
Dopo che Gesù ha risposto, accade che lo Scriba ripete quello che il Signore ha detto con parole proprie, usando la propria sensibilità. Vale a dire che anche noi abbiamo la possibilità e il compito di ridire la Parola del Signore “traducendole” nei linguaggi e nella sensibilità degli uomini di oggi. È il ripetersi delle lingue il giorno di Pentecoste.
“Vedendo che gli aveva risposto saggiamente, Gesù gli disse: Non sei lontano dal regno di Dio”. Ma quella dello Scriba non era una risposta e non poteva esserlo perché Gesù non gli aveva fatto alcuna domanda.
Marco ci vuole dire che, mentre noi interroghiamo il Signore e lui ci risponde chiedendoci di riproporre le sue parole così come ne siamo capaci, contemporaneamente lui le riconferma quando le ridiciamo con il linguaggio concreto dell’amore che lui ci ha insegnato.
Lo Scriba aveva aggiunto alle parole di Gesù un’osservazione: amare l’Unico e il prossimo come sé stesso “vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici” e, questo, riceve il “sigillo” dal Signore: “Non sei lontano dal Regno di Dio”.
All’inizio della sua missione Gesù proclamava: “Il Regno di Dio è vicino, convertitevi e credete al Vangelo”, in altre parole: “Il Regno di Dio è già qui tra di voi, cambiate modo di pensare, di vivere e vi accorgerete che è vero: credeteci! È questa la buona notizia che sono venuto a portarvi”. Allora quel “Non sei lontano dal Regno di Dio” è il riconoscimento che lo Scriba ha compiuto quel cammino richiesto per accorgersi che il Regno di Dio è già presente tra di noi. Ha compreso che l’amore per Dio e l’amore per il prossimo abolisce tutti i sacrifici e tutti gli olocausti, perché l’unico sacrificio e l’unico olocausto è il dono della propria vita nella fatica nella fedeltà dell’amore, nella fatica nella fedeltà ad una Parola che c’è stata consegnata, che abbiamo la possibilità di ripetere, di tradurre per le persone che incontriamo quale che sia il loro volto, anche il volto dei ciechi, degli zoppi, e dei sordi, degli emarginati, degli immigrati di oggi e di tutti i tempi. Questo in attesa di comprendere cosa sia quel “tutto” che sarà al centro dell’Evangelo di domenica prossima.
(BiGio)
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