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Un evento certo che esige di essere "atteso"

Una attesa radicata nell'oggi che chiede capacità di aderire totalmente al presente amandolo e che si declina come resistenza, pazienza, perseveranza, fede, speranza nel vivere l'oggi

Tratta dal discorso escatologico (Mc 13), l’odierna pagina del vangelo secondo Marco (Mc 13,24-32) annuncia come certa la venuta del Signore, ma afferma che la sua data, il suo momento, sono incerti: “Quanto a quel giorno e a quell’ora nessuno lo sa” (Mc 13,32). Un evento certo, ma di cui non si sa il quando, esige che lo si attenda. Il credente può dunque assumere spiritualmente la dimensione della venuta del Signore nello spazio dell’attesa. L’attesa è una delle poche dimensioni in cui noi ancora sperimentiamo nel nostro corpo e nella nostra psiche il tempo. Ne patiamo il logorìo e ne conosciamo le promesse. Nell’attesa, soprattutto se intensa, vissuta, patita, il tempo stesso diventa stato d’animo. L’attesa poi è ciò che prepara il futuro, fosse pure un futuro prossimo, il futuro del giorno dopo, il futuro di un incontro, di un appuntamento. Noi che abbiamo normalmente giornate programmate, quando c’è l’attesa abbiamo un vuoto da riempire che sollecita la nostra libertà, ma ci assilla anche con l’ansia o con l’angoscia. Attendere significa poi anche immaginare, proiettarsi nell’evento atteso, anticiparlo, viverlo interiormente. L’attesa ci situa su una soglia, tra ora e dopo, tra oggi e domani, tra storia e Regno, tra tempo ed eternità. Nell’attesa, chi è assente viene reso presente, e lì cogliamo anche la radice dell’atteggiamento spirituale dell’attesa del Signore. Questa è anzitutto fiducia nella promessa del Signore che ha detto: “Io vengo presto”. È un atto di fede, l’attesa del Signore. Un atto di fede nella parola del Signore ma soprattutto nella persona del Signore Gesù. Un atto di fede che unifica tutte le nostre energie, anche le più profonde, e le orienta verso un unico fine. L’attesa ha una capacità unificatrice della persona: tutte le fibre dell’essere sono coinvolte e impegnate nell’attesa, il corpo e lo spirito, la mente e i sensi.

Nello spazio spirituale l’attesa si declina anche come resistenza, ovvero come forza nelle tribolazioni e nelle avversità della storia, come lotta; come pazienza, cioè come capacità di vivere l’incompiutezza e l’inadeguatezza che riscontriamo nel quotidiano, in noi, negli altri, nella comunità, nella chiesa, pazienza che è anche capacità di soffrire e patire nel supportare gli altri, nell’attendere i loro tempi, nel perdonarli e nel lasciarsi perdonare; poi come perseveranza, cioè come rifiuto di apostatare, di abbandonare nei momenti bui, di rimanere incassando la testa fra le spalle nei momenti difficili, di dare durata al tempo della propria sequela, di reggere la dura prova del tempo che passa senza cadere nel cinismo o nella sfiducia o nella disperazione; poi ancora come fede che crede le cose invisibili come più salde e sicure di quelle visibili; e anche infine come speranza che intravede il futuro e consente di camminare nell’oggi, di reggere il peso dell’oggi. La speranza ha il suo effetto sul presente consentendo la vita oggi. Dice Paolo: “Sperare quel che non vediamo, significa attenderlo con costanza” (Rm 8,25). Per patientiam expectamus. L’attesa paziente diviene persino motivo di beatitudine secondo il libro di Daniele: “Beato chi attenderà con pazienza” (Dn 12,12).

Questa attesa radica nell’oggi e dà senso e direzione all’oggi. Il vangelo sottolinea che l’annuncio della venuta del Signore non aliena il credente dall’oggi, anzi gli chiede capacità di aderire al presente, addirittura alla terra in cui vive, e di amarla.

(Luciano Manicardi)

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