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XXXIV PA – Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’Universo – Gv 18,33-37

Pilato a Gesù: "Sei tu il re dei giudei?". Risposta di Gesù: "In che senso, scusa?"

"Tu lo dici: io sono re per dare testimonianza alla verità". 

Siamo sicuri di sapere che cosa significa la parola "verità" in un mondo nel quale questa sembra sostituita dalla "narrazione" che comporta una maggiore facilità nella manipolazione di un fatto?


 

Con la festa di Cristo Re termina il cammino liturgico di quest’anno nel quale ci ha accompagnato l’evangelista Marco aiutandoci progressivamente a scoprire e a conoscere chi è Gesù.

Nella prima parte di questo percorso, siamo stati sollecitati a porci costantemente una domanda: “Chi è costui?” interrogandolo direttamente o indirettamente, rimanendo sorpresi di quello che diceva e faceva. Nella seconda è stato invece Gesù ad interrogare noi: “Chi dite che io sia?” e, nella terza parte, Marco ci ha posto davanti a due strade diverse: vivere contraddicendo quello che affermiamo, oppure testimoniare con coerenza donando noi stessi fino alla fine seguendo l’esempio del Signore.


Questa domenica, l’ultima di quest’anno liturgico, c’è una specie di riassunto finale attraverso il dialogo durante il processo tra Pilato e Gesù che può forse apparire, ad una lettura disattenta perché il brano è troppo noto, “strano”. È un dialogo tra due personalità estremamente diverse nel quale sorprende la pacatezza e sicurezza di Gesù nel rispondere senza essere per nulla intimorito di fronte ad uno che ha il potere di condannarlo e metterlo a morte. Gesù appare composto, misurato, dimostrando una pace, una serenità interiore difficile da misurare in noi quando ci troviamo davanti anche ad un semplice poliziotto che ci ferma per un controllo e non davanti ad un giudice monocratico in un processo penale anche se innocenti. Appare qui in tutta la sua ampiezza la differenza tra autorità ed autorevolezza, doti che caratterizzano diversamente i due interpreti.

“Sei tu il re dei giudei?” chiede Pilato e Gesù sostanzialmente gli chiede di riformulare meglio la domanda: “In che senso “re”? Secondo il tuo modo di pensare come funzionario romano, oppure nel senso del Cristo, del Messia, dell’Unto di Dio? Secondo un ordine mondano secolare, oppure nell’orizzonte della fede nell’Unico?”. Pilato, defilandosi, precisa che lui non è un giudeo quindi non può pensare la regalità nei termini dell’attesa religiosa del popolo di Israele.

Gesù allora prende in mano la gestione del confronto quasi ribaltando i ruoli e per tre volte non si definisce “re”, ma parla del “regno” perché risulti chiaro che si può dire certamente che lui è “re”, ma che la sua regalità non è un privilegio, ma è un dono che viene dall’alto nel quale c’è posto per tutti, anche per chi lo crocifiggerà.

Pilato continua a non riuscire ad inquadrare il tipo di regalità di Gesù abituato com’è a pensare al suo imperatore dotato di eserciti, funzionari, ricchezze, popoli sottomessi, schiavi. Vede davanti a sé un uomo inerme e solo, in balia del suo potere. Gli viene da sorridere nel pensare che quest’uomo parli di un regno che afferma non essere nella carta geografica.

Gesù a questo punto conferma:Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque e dalla verità, ascolta la mia voce”.

Per comprendere cosa Gesù desideri dire, vale la pena di soffermarci un momento sul significato della parola “verità” che oggi si è in gran parte perso, perché è divenuta sempre più importante la “narrazione” di un fatto che comporta facilità di manipolazione.

Il termine verità è riconducibile a più radici. In sanscrito vrtta significa fatto, accadimento; nello zendo (la lingua dei testi sacri zoroastriani dell'antico Iran) la radice var vuol dire credere similmente alla parola sanscrita varami che indica ciò in cui credo, scelgo, voglio, spero. Viene in questo modo messa in luce l'importanza di una libera e volontaria adesione a un fatto, a una azione. Infine, in greco (la lingua nella quale è stato scritto l’Evangelo di Giovanni), aletheia significa dischiudimento, svelamento, rivelazione; è lo stato di qualcosa che non è o non è più nascosto e che ora è completamente evidente.

Quale è allora la realtà, la verità che Gesù è venuto a testimoniare rivelandola, credendoci, scegliendola percorrendola fino alla fine? È quella che fin dall’inizio Marco ci racconta e ci ha accompagnato a scoprire con il suo Evangelo: il Regno di Dio è già presente tra gli uomini, sta a loro, a noi, renderlo evidente testimoniandolo con la nostra vita come ha fatto Gesù. Seguendo il suo esempio nel servizio, nella pazienza, nella benevolenza, il dono di sé stessi, senza usare la forza, il ricatto, la corruzione; usando solo l’amore che non ferisce ma salva, non cerca la vendetta ma pratica il perdono. 

Sta in questo la sua “regalità” nella quale, con il Battesimo, siamo stati pure noi innestati per condividerla in un Regno che è anche il nostro Regno.

Questa festa allora non è esaltare e per dare onori a Dio: lui non li vuole. Come Padre, si sente invece onorato ed esaltato vedendo i propri figli realizzati che vivono come persone secondo la sua intenzione d’amore per tutti (è questa la vita “spirituale”, non quella ricca di pratiche di pietà). Ha già visto realizzarsi questo nel suo Figlio unigenito, ora attende che possa realizzarsi in tutti gli uomini, noi, suoi figli e, condividendo così la sua regalità, contribuire alla verità, al rivelarsi del suo Regno già oggi tra di noi.

(BiGio)

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