Domenica XXVIII PA - Mc 10,17-30

Quel “tale” era andato da Gesù per avere qualcosa di più e viene invitato a dare di più perché si possiede davvero quello che si dà, quel che si trattiene non si possiede, si viene da questo posseduti.



Nel raccontarci il cammino verso Gerusalemme di Gesù, Marco progressivamente si sofferma su dei temi apparentemente slegati tra di loro ma che, invece, sono come i tasselli di un puzzle che, piano piano vanno al loro posto. Tutto inizia dalla domanda fatta ai discepoli: “Chi dice io sia la gente e voi?” per poi prestare attenzione al rapporto tra i discepoli (l’esigenza del servizio a tutti per essere i “primi”), poi a quello tra loro e chi “non è dei nostri” con l’esigenza di non essere pietra di inciampo per nessuno. Lo sguardo poi si è spostato su quale debba essere il rapporto tra le persone in generale e in particolare all’interno del matrimonio attraverso il tema del divorzio e l’esigenza di essere come i “piccoli” aperti all’accoglienza dell’altro senza volersene impossessare.

 

Oggi ci è chiesto di riflette sull’incontro che Gesù fa con un “tale” che letteralmente “corre” verso di lui e “gli si getta ai piedi”. Il primo verbo Marco lo ha usato solo nel caso dell’indemoniato (Mc 5,6) e il secondo anche nell’incontro con il lebbroso (Mc 1,40). Marco allora ci mette sull’avviso che questo “tale” è un “posseduto” ed un “impuro” realtà che lo escludono da Dio. In ogni caso questo “tale” nel suo correre esprime una sete di ricerca di identità e di senso della propria vita. Per questo “interroga” Gesù come “maestro”, cioè come uno che può indicare la via da percorrere. Gesù lo spiazza rifiutando l’attributo “buono” che va riservato solo a Dio (Ps 119,68) costringendolo ad interrogarsi per andare a fondo della sua ricerca, cercando le motivazioni che lo muovono. Come domenica scorsa aveva spostato l’attenzione dalla Legge al rapporto interpersonale e con Dio, anche oggi passa dal fare all’essere alla luce della Torà. Elenca però solo la seconda parte che riguarda i rapporti tra gli uomini: prima di tutto non uccidere, poi la gestione della sessualità; quindi il rapporto con le cose (non rubare), la necessità di essere sinceri e veritieri (non testimoniare il falso). Lo si è sicuramente notato, Gesù cita il Decalogo in un ordine diverso da Es 20 e ci infila un precetto “Non defrauderai” che continua così “il salariato povero e bisognoso e gli darai il suo salario il giorno stesso prima che tramonti il sole perché egli è povero e a quello aspira” (Dt 24,14). Infine, a fondamento di tutto pone il rapporto con i genitori cioè alla propria origine dove affondano le nostre origini, gli insegnamenti del vivere armonicamente. 

Questo modo di rispondere di Gesù a un credente è significativo: afferma che la salvezza si gioca nei rapporti con gli altri, con il prossimo. Non gli dice come vivere il rapporto con Dio, né cosa credere o sperare, perché, la salvezza, si decide sull’amore concreto vissuto qui e ora verso gli altri, verso i fratelli e le sorelle in umanità: “non fare torto a nessuno”, “amare il prossimo come se stesso” (cf. Mt 19,19; Lv 19,18).

Quel “tale” risponde che ha sempre fatto tutto questo ma lo dice riempiendosene la bocca (così dice il termine fonetico greco), Gesù non lo giudica e questo non è permesso nemmeno a noi, ma “fissò lo sguardo su di lui” entrando così nel suo intimo cercando di farlo passare dal campo dell’avere in cui è prigioniero a quello dell’essere e gli dice con dolcezza che gli manca “uno”, cioè tutto e pronuncia quattro imperativi: vavendidai e poi seguimi. Quel “tale” era andato da Gesù per avere qualcosa di più e viene invitato a dare di più perché si possiede davvero quello che si dà, quel che si trattiene non si possiede, si viene da questo posseduti. Ecco perché Marco aveva presentato quel “tale” nel modo prima evidenziato.

Gesù con questo dice che c’è un ostacolo maggiore delle ricchezze alla salvezza che è un’impresa impossibile alle sole forze dell’uomo: ogni pretesa autosufficienza ostacola l’avvento del Regno di Dio. Gesù è riuscito a liberare l’indemoniato, è riuscito a purificare il lebbroso, ma nulla può con il ricco che non si apre ad accoglierlo come sanno invece fare i “piccoli” della scorsa settimana e se ne va. 

Il possibile di Dio può incontrare l’impossibile degli uomini” (Mc 10,27) afferma ora Gesù volgendo lo stesso sguardo agli occhi degli apostoli fissandoli intendendo infondere loro una fiducia che sfocia in una promessa che apre al futuro e offre speranza: “il centuplo quaggiù” di quello che hanno lasciato. Promessa della quale fanno parte anche contraddizioni, difficoltà e sofferenze ma appoggiate sulle spalle del Signore. L’importante è non trattenere per sé perché chi lo fa si esclude dalla pienezza della vita e non si parla solo di beni materiali, ma anche delle proprie capacità, dei doni, dei carismi che ci sono dati non ad esclusivo proprio uso e consumo, ma per il servizio a tutti. Ecco allora l’invito espresso due volte con il verbo “fissare lo sguardo”: guardare l’altro per scoprire il suo bisogno fondamentale ed aiutarlo a colmarlo; incontrare gli occhi dell’altro, chiunque sia, di qualsiasi nazionalità o fede con quelli del Signore perché lui è amato da Dio e, questo, ci unisce a lui.

 

(BiGio)

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