XXX Domenica PA - Mc 10,46-52

Che vuoi che io ti faccia?” la risposta è “Che io veda di nuovo”: aveva perso la capacità di “vedere la Parola" che significa il realizzarla: è questo che Timeo chiede e riceve.


Il brano di Evangelo di oggi ci fa transitare progressivamente dal ministero in Galilea di Gesù alla sua ultima settimana a Gerusalemme dove concluderà la sua vita. Fino ad ora Marco ha raccontato, coinvolgendoci, la domanda che si ponevano chi lo incontrava su chi fosse (Mc 4,41) fino alla quella posta da Gesù “Chi dice la gente e voi chi io sia”, i conseguenti suoi insegnamenti per far comprendere meglio le esigenze della sequela e i comportamenti conseguenti. La pericope di oggi con l’episodio della guarigione del cieco di Gerico mentre “partiva” da quella città, ne è una mirabile sintesi e vale la pena di soffermarcisi. Marco qui usa lo stesso termine adoperato per l’uscita degli ebrei dall’Egitto e già questo ci indica quale tipo di cammino stia compiendo Gesù (di liberazione alla testa dei discepoli). Come è significativo che senta l’esigenza di ripeterci due volte che quel cieco era “il figlio di Timeo, Bartimeo” scrivendolo la prima volta in greco, che significa “onore, onorato”, la seconda in aramaico dal significato opposto: “impuro”; quindi si può ipotizzare che desideri presentarci due personalità, due tipi di uomo. Domenica scorsa, i “figli del tuono” Giacomo e Giovanni, avevano cercato i posti d’onore accanto a Gesù quando sarebbe stato nella sua gloria: ciechi nella loro domanda, quindi impuri.

Bartimeo “sedeva lungo la strada” che è un termine tecnico per richiamarci Mc 4 e la parabola del seminatore che sparge il seme: quello che cade sulla strada, viene mangiato dagli uccelli (simbolo del potere). Il cieco stava sdraiato a terra “a mendicare”: è uno escluso ai margini della società perché impuro, uno scarto umano che cerca di raggranellare qualcosa per vivere. Qui il riferimento è agli ambiziosi che “mendicano” sempre ai potenti qualche privilegio. La strada dove si trovava appena fuori della porta della città è quella che percorre Gesù con i suoi discepoli e lui sente che è il Nazareno che sta passando. 

La pericope di oggi si configura come una piccola guida del percorso che porta alla fede in Gesù: vediamo. Il primo passo che Marco sottolinea è che questa nasce in persone che hanno saputo di lui anche incidentalmente, magari solo dall’aver percepito una piccola chiacchera. È per esempio il caso della donna emorroissa (Mc 5,27), come quella della prostituta che entra in casa di Simone (Lc 7,37). In ambedue i casi Gesù sottolinea la loro fede matura attraverso una fiducia capace di instaurare una relazione vera e profonda. Qui è allora necessario interrogarsi se noi e le nostre Comunità siamo capaci anche solo di sussurrare o fare qualcosa di concreto che annunci il suo “passaggio”: è un invito preciso a non essere silenti. 

Una fiducia che nasce negli anfratti della quotidianità, porta a gesti coraggiosi (toccare il lembo del suo mantello, gridare a squarciagola), a vincere ostacoli, opposizioni, rimproveri che in questo modo riescono a creare lo spazio perché la potenza di Dio possa operare. 

Il cammino di fede nasce dall’ascolto, diviene invocazione, discernimento, accoglienza di una chiamata, incontro personale con il Signore e, infine, sequela. Questo cammino implica il riuscire a passare da una situazione di abbandono statico a un dinamismo senza inibizioni, dall’emarginazione alla comunione, dalla cecità alla fede. La salvezza a lui annunciata da Gesù che gli permette di vedere di nuovo, consiste nell’instaurarsi di relazione con Gesù che diventa una sequela e non un rapporto occasionale o uno stato nel quale ci si installa una volta per sempre. Non per nulla al termine dell’episodio, Bartimeo è un discepolo che seguiva Gesù “lungo la strada” (Mc 10,52).

 

Un’altra faccia del prisma che è questo brano evangelico, porta a guardare la comunità dei discepoli di allora e di oggi; riceve innanzitutto il mandato di farsi portavoce della sua chiamata (“chiamatelo!” è un imperativo, un comando dato), ma può anche diventare un ostacolo all’incontro degli uomini con il Signore quando si crede di difendere l’ortodossia zittendo le voci profetiche, o cerca di primeggiare (Mc 10,37). La conseguenza è il ripiegamento su se stessa nel proprio progetto diventando sordi e ciechi alla Parola. “Avete occhi e non vedete? Non capite? Non comprendete? Non vi ricordateNon capite ancora?” sono state le domande ripetute da Gesù ai suoi discepoli (Mc 8,14-21).

Si può al contrario essere ciechi per troppo zelo che diviene intolleranza verso chi opera il Regno ma “non è dei nostri” (Mc 9,38) o verso i bambini che si avvicinano a Gesù (Mc 10,13), per poi essere pronti ad obbedire in modo passivo senza comprenderne il senso e nemmeno interrogandosi su di esso. Vi è poi quella cecità che diviene meschinità e incapacità di guardare oltre il proprio naso e fa diventare “guide cieche” che non sanno più amare il fratello e discernere tra la giustizia e la misericordia dalla quale non si può prescindere.

Il grido di Bartimeo “Abbi pietà di me!” ricorre 139 volte nei Salmi e, quando viene chiamato ed invitato ad alzarsi (qui Marco usa uno dei due termini tecnici per dire la “risurrezione”), la sua disperazione diventa una risposta capace di sbarazzarsi di tutto quello che poteva essere di intralcio all’incontro con il Signore. Per lui era il mantello che ricopriva la sua vita passata: la getta via senza pensarci su al contrario di quel “tale” che, invece, rimane posseduto dalla zavorra delle sue ricchezze (Mc 10,22). 

Gesù gli rivolge la stessa domanda posta ai due fratelli Giacomo e Giovanni (Mc 10,35): “Che vuoi che io ti faccia?” la risposta è “Che io veda di nuovo”. Aveva perso la capacità di “vedere la Parola" che significa il realizzarla: è questo che Timeo chiede e, grazie alla fiducia posta in Gesù, riceve la capacità di essere nuovamente le mani del Padre, di saper “fissare lo sguardo” e amare l’altro come Gesù, ponendosi alla sua sequela. 

(BiGio)

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