Per capire la guerra bisogna saper ascoltare i morti

“Se io non uccido l’altro” scriveva Capitini, “mi porto in un punto intimo di amore infinito per lui, e così posso fare per tutti: allora, io li sento come qualche cosa di più che esseri annientabili”. È così che i morti ci diventano presenti, ed è così che attraverso la morte scopriamo “questo atto di unità amore” che possiamo estendere ai vivi.

Ho ripensato alle parole di Capitini leggendo Piedi freddi di Francesca Melandri, libro che parla della guerra in Ucraina e non solo. 
I morti parlano, a saperli ascoltare. Perciò desideriamo interrogarli sui nodi irrisolti, tenerli con noi attraverso le parole e le preghiere. Oppure la loro voce ci è insopportabile, come una ferita che non cicatrizza mai; allora ci infuriamo contro di loro, ci litighiamo persino, ne facciamo una malattia. 
Possono essere morti prossimi, nell’orbita degli affetti più intimi. Un genitore, un amico, una persona amata. Ma possono essere le masse sterminate di una guerra, mentre tra i cumuli di macerie si aggirano civili catapultati in un mondo dove l’unico orizzonte visibile è la sopravvivenza. Masse che a distanza comprimiamo in statistiche e impossibili geometrie nel tentativo di rendere intellegibile l’orrore. O che da vicino azzannano i nostri crani e non mollano più la presa...

L'articolo di Matteo Pascoletti continua a questo link:

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