Nel corso degli ultimi anni le domande dei nostri ragazzi si sono moltiplicate. Ma le risposte sono state spesso banali e insufficienti Perché noi adulti non siamo stati per loro un punto di riferimento
Quando il filosofo inglese John Locke introduce il tema dell’identità personale, la questione che pone, almeno apparentemente, è semplice: chi sono? La filosofia prende le distanze dalla metafisica cartesiana, e quindi dal tradizionale dualismo anima-corpo. Ormai, non basta più dire «sono una cosa che pensa» per risolvere il problema della natura degli esseri umani. Ciò che conta è «chi sono io», e quindi cosa mi rende differente da tutti gli altri. E la risposta di Locke, che nel corso della modernità verrà declinata in molteplici maniere, è complessa ma chiara: «Se l’anima del principe, portando con sé la consapevolezza della vita passata del principe, entrasse e informasse di sé il corpo di un ciabattino subito dopo che questo fosse stato abbandonato dalla propria anima, ognuno vede che egli sarebbe la stessa persona che il principe, responsabile solo delle azioni del principe». Il soggetto si estende quindi sindove si estendono la coscienza e la memoria, ossia la capacità di dire “io” e il ricordo di ciò che si è fatto. Ma cosa resta di quest’io consapevole di sé a partire dal momento in cui il soggetto inizia a essere decostruito, e a sbriciolarsi?
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