Il Battesimo: la sua scelta tra l'essere fuoco che distrugge o accogliente colomba
Nella contemplazione della nascita di Gesù e di sua madre Maria, la liturgia ha sottolineato come questo bambino dal nome di “Dio-che-salva” sia stato annunciato e accolto prima di tutto dagli esclusi del tempo perché considerati impuri, da stranieri e per lo più dei maghi venuti da lontano oggi, al termine del tempo natalizio, ci viene proposta la pagina del suo battesimo per mano di Giovanni il precursore per presentarcelo pienamente inserito nel suo popolo, l’Israele di Dio, e nell’intera umanità in attesa della salvezza per mezzo di un Dio-con-noi, l’Emmanuele.
L’Evangelo inizia con una frase che può essere intesa come una mera introduzione descrittiva “In quel tempo, Gesù dalla Galilea venne il giordano da Giovanni, per farsi battezzare da lui” ma non è così. Matteo desidera invece sottolineare una precisa volontà, una precisa scelta. È Gesù che prende in mano la sua vita e, tra le molteplici possibilità offerte dai movimenti spirituali e teologici della sua epoca, sceglie quello al quale aveva aderito Giovanni formando un suo gruppo di discepoli.
Quasi tutte le correnti religiose dell’epoca praticavano il battesimo. Il rito aveva molti significati, ma soprattutto uno era importante: con l’immersione si indicava la morte di un individuo (la sua vita passata era cancellata, quasi fosse trascinata via dalla corrente) e con l’emersione avveniva la nascita di un uomo nuovo al quale, naturalmente, veniva dato un nome nuovo.
Giovanni lo amministrava sia per accogliere coloro che volevano far parte dei suoi discepoli, sia a favore di coloro che decidevano, riconoscendosi peccatori, di cambiare vita per prepararsi alla venuta del Messia annunciata come imminente, che avrebbe secondo le sue attese eliminato dalla faccia della terra i peccatori.
Gesù si “immerge” nella folla dei penitenti, è proprio lì che vuole incontrare la nostra umanità ferita e si espone pubblicamente difronte al popolo del Signore compiendo un atto che lo situa come discepolo e seguace di Giovanni, della sua radicalità e della sua attesa. Ma c’è subito uno scatto in avanti che, staccandosi e differenziandosi, segna l’inizio di una fase nuova nella sua vita e l’inizio della sua predicazione e del suo ministero pubblico.
Questo evento viene narrato da tutti e tre i Sinottici ma solo Matteo inserisce un dialogo tra i due personaggi. Noi con Giovanni non comprendiamo perché Gesù dovrebbe farsi battezzare da lui: che bisogno ne ha? Vi è qualcosa di analogo all’atteggiamento di Pietro narrato nel IV vangelo che si rifiuta di farsi lavare i piedi da Gesùv(Gv 13,6-9). Anche lui non capisce subito il senso di ciò che Gesù vuole fare. Tutti e due tentano di mettere un ostacolo, di distogliere, di impedire: il verbo usato da Matteo il più delle volte indica atteggiamenti che vengono biasimati e ripresi da Gesù. Per esempio quando i discepoli impedivano ai bambini di andare a lui (Mt 19,14), oppure quando volevano impedire a uno che non faceva parte del loro gruppo di scacciare demoni (Mc 38-39).
Gesù invece, non si pone mai nell’atteggiamento di colui che mette ostacoli. Gesù sempre accoglie, lascia che tutti si esprimano, manifestino la loro volontà; non impedisce nemmeno a Giuda di fare ciò che ha in mente di fare. Preferisce obbedire e compiere le Scritture, ovvero, vivere gli eventi alla loro luce.
Così ora chiede a Giovanni di lasciare fare, per adempiere ogni giustizia, ovvero per compiere il volere di Dio espresso nella Legge e nei Profeti. All’“Io ho bisogno di essere battezzato da te” di Giovanni, Gesù oppone la necessità che entrambi si sottomettano al disegno salvifico del Padre per consentirne la realizzazione.
La parola chiave è lasciar fare: “Lascia fare per ora … Allora lo lasciò fare”. Quello che avviene è una reciproca obbedienza: Giovanni obbedisce a Gesù facendo ciò che non vorrebbe e Gesù obbedisce a Giovanni sottomettendosi al suo battesimo. In quella reciproca sottomissione vi è una libertà, una maturità basata su di un discernimento reciproco che affonda le sue radici nella preghiera, cioè nel confronto con le Scritture nelle quali incontrano la volontà del Padre. Il loro incontro diviene allora spazio di rivelazione e di conoscenza dell’amore di Dio. Nessuna gelosia, nessuna invidia, nessuna rivalità tra i due, ma riconoscimento reciproco e accoglienza del reciproco concorde discernimento.
Il battesimo di Gesù porta con sé tre segni appena esce dall’acqua:
“Per lui si aprirono i cieli”. Il popolo di Israele aveva la sensazione che il cielo si fosse chiuso e che Dio, sdegnato per i peccati e le infedeltà del suo popolo, avesse smesso di inviare profeti e avesse rotto ogni dialogo con l’uomo. La domanda era quando avrebbe avuto fine questo silenzio che tanto angosciava e invocavano: “Signore, tu sei nostro Padre; noi siamo l’argilla e tu colui che ci dà forma, tutti noi siamo opera delle tue mani. Non adirarti troppo, non ricordarti per sempre delle nostre iniquità… Ah, se tu squarciassi i cieli e scendessi!” (Is 64,7-8; 63,19). Matteo desidera allora dirci che con l’incarnazione Dio ha esaudito la supplica del suo popolo.
Contemporaneamente Gesù “vide venire sopra di lui lo Spirito di Dio come una colomba” che è immagine di tenerezza, affetto, riconciliazione, bontà; tutto il contrario di quando dai cieli aperti scesero le acque del diluvio o il fuoco e zolfo che incenerirono Sodoma e Gomorra e che erano nuovamente attese a breve per distruggere i malvagi e i peccatori come annunciava Giovanni. Questa immagine è importante perché segna il distacco di Gesù da Giovanni e la sua scelta di accostarsi ai peccatori sempre con la dolcezza, l’amabilità mite di una colomba accogliente e non escludente.
“Ed ecco una voce dal cielo…” che richiama tre testi della Scrittura:
· “Questi è il figlio mio”. Il richiamo è al Sal 2,7. Nella cultura semitica il termine figlio non indicava solo la generazione biologica, implicava anche l’affermazione di una somiglianza. Presentando Gesù come suo figlio, Dio garantisce di riconoscersi in lui, nelle sue parole, nelle sue opere e, soprattutto, nel suo gesto supremo di amore: il dono della vita.
· “Il prediletto”. Il riferimento è al racconto della prova cui è stato sottoposto Abramo: gli era stato chiesto di offrire il figlio Isacco, il prediletto, “l’unico che tu ami” (dice la traduzione letterale diGn 22,2.12.16). Applicando a Gesù questo titolo, Dio invita a non considerarlo un re o un profeta come gli altri, egli è, come Isacco, l’unico, l’amato.
· “Nel quale mi sono compiaciuto”. Dio dichiara che è Gesù il servo di cui ha parlato Isaia (42, è la prima Lettura di oggi), è lui l’inviato nel mondo a “instaurare il diritto e la giustizia” senza gridare, senza spezzare la canna incrinata ma attraverso l’offerta della propria vita.
Questa voce dal cielo ribalta il giudizio pronunciato dagli uomini che hanno portato Gesù sulla croce e smentisce le attese messianiche del popolo d’Israele che non poteva concepire un messia umiliato, sconfitto, giustiziato. Quando, nella casa del sommo sacerdote, Pietro giurò di non conoscere quell’uomo, in fondo stava dicendo la verità, non poteva riconoscere in lui il messia: non corrispondeva in nulla all’atteso salvatore.
Il modo con cui Dio ha adempiuto le sue promesse ha costituito per tutti, anche per il Battista, una sorpresa.
A noi rimane allora l’invito ad uscire dalle nostre confortevoli mura scegliendo di “confonderci” tra gli uomini, continuando a discernere la volontà del Padre attraverso il confronto costante con le Scritture che sono la sua “voce” che discende dal cielo, per fare la sua volontà e adempiere la sua giustizia non lanciando scomuniche fuoco e fiamme, ma agendo con la dolcezza e la semplicità che ispira la figura della colomba con in bocca un ramoscello di ulivo.
(BiGio)
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