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Domenica III PA - Mt 4, 12–23 – Domenica della Parola 2023

Senza conoscerlo né sapere bene che cosa possa significare ed essere quel suo annuncio, lasciano lavoro, famiglia, tutto e lo seguono. Perché? Inoltre non promette nulla ma affida un compito.

 


Gli Evangeli della nascita si chiudono con la festa dell’incontro di Gesù con il Battista che, dall’esserne il Precursore, ne diventa il Testimone e ci indica di seguirlo perché è lui che estirperà le radici del male dalla terra e, donandoci il suo Spirito, ci immergerà nella sua realtà (è il Battesimo nello Spirito Santo indicato da Giovanni), rendendoci così uomini “nuovi”.

La Liturgia ci ha così introdotto nel cammino di quest’anno durante il quale, guidati dall’Evangelo di Matteo, seguiremo Gesù scoprendo la vita che conduce, il messaggio che annuncia incarnandolo. Sarà un messaggio di amore, di dono di vita che è rappresentato dalla figura dell’agnello; sarà l’invito a imparare come si diventa agnelli, come si entra nel regno di Dio.

 

L’Evangelo di oggi ci informa che, quando Gesù seppe che il Battista era stato arrestato, non rimase nella Giudea dove aveva operato Giovanni, ma “si ritirò nella Galilea”. Però non si ferma a Nazareth, a casa sua, bensì prosegue oltre e va a Cafarnao, sulla sponda nord del lago di Galilea nel territorio di Zàbulon e Nèftali. 

Scelta che può sembrare in contraddizione perché, lungo tutto l’Evangelo di Matteo, il suo costante invito ai suoi è quello di non rivolgersi ai pagani, ma alle pecore perdute di Israele (come in 10,5) mentre, con la scelta di Cafarnao, viene a trovarsi al centro della “Via del Mare” che univa l’Egitto alla Mesopotamia con le sue carovane e i suoi traffici commerciali gesti da uomini di ogni nazione (non per nulla era chiamata la “Galilea delle genti”). Però, con questa sua scelta iniziale, di fatto prepara progressivamente l’apertura finale dell’Evangelo (28,19) e l’invito: “Fate discepoli tutti i pagani”.

In passato quel territorio aveva vissuto un periodo di oppressione, quando era stato conquistato dagli Assiri nel 734 a.C. Non per nulla Isaia nella sua profezia citata da Matteo parla di un “popolo che viveva nelle tenebre” che “vide una grande luce”, quella della sua liberazione, che è come il sole che “sorge da un estremo del cielo e la sua orbita raggiunge l’altro estremo: nulla si sottrae al suo calore(Ps 19)Ma ora è la presenza di Gesù che porta luce e salvezza a tutti e a tutta la creazione: “I cieli narrano la gloria di Dio, l’opera delle sue mani annuncia il firmamento. Il giorno al giorno ne affida il racconto ne trasmette la notizia. Senza linguaggio, senza parole, senza che si oda la loro voce, per tutta la terra si diffonde il loro annuncio e ai confini del mondo il loro messaggio” (Ps 19). 

Potremmo chiederci oggi quali siano le nostre tenebre, le nostre oppressioni e quale sia la luce, la speranza, la salvezza che il Signore ci porta e ci chiede di interpretare e porgere a tutti, cosa possa per noi oggi significare l’annuncio che Gesù fa iniziando la sua missione: “Convertitevi, perché il Regno dei Cieli è vicino”.

Matteo, nel dirci che si sta realizzando anche per noi oggi la profezia di Isaia che la luce vincerà sulle tenebre, desidera aprirci il cuore alla speranza fin dall’inizio della seconda parte del suo Evangelo (da 4,17 a 16,20) che dedica alle “opere del Messia” (v. 11,2); bisogna però convertirsi, cambiare mentalità, atteggiamento.

 

Gesù in questo territorio meno culturalmente “ingessato” e certamente più aperto all’incontro con le novità, sorprende per il suo dinamismo: “cammina”, “chiama”, “insegna”, “guarisce” ed “esorcizza”.

Mentre cammina incontra delle persone e le chiama, invita a seguirlo. Queste senza conoscerlo né sapere bene che cosa possa significare ed essere quel suo annuncio, lasciano lavoro, famiglia, tutto e lo seguono. Perché? È vero che anche oggi molti sono disposti a seguire chiunque proclami slogan facili da comprendere, che vanno incontro ad interessi personali, ma qui Matteo desidera richiamare alla nostra mente altre chiamate al discepolato come, per esempio, quella di Elia ad Eliseo che lascia immediatamente l’aratro e lo segue.  Ancor di più quanto accadde al Sinài quando tutto il popolo, prima di ricevere la Torà, disse: “Faremo ed ascolteremo tutto quello che il Signore ha detto” (Es 24,7) premettendo il “fare” prima ancora di sapere il “cosa”. È una adesione sulla fiducia, sulla fede basata su di un appello etico alle radici dell’esistenza, di fronte al quale non ci sono scappatoie, vie di mezzo: o è un “sì” o è un “no”.

 

Camminando lungo la Via del Mare insegna prima nelle sinagoghe ma presto queste non basteranno più e dovrà farlo all’aperto, salendo anche su di un monte per poter parlare a tutti, pure ai non ebrei. Nel suo procedere incontra le realtà più diverse, guarisce ogni tipo di malattie a dirci che, con il suo annuncio, non chiede di aderire ad una nuova dottrina, ma tocca la dimensione esistenziale di ogni persona anche nelle sue fragilità fisiche, riportandole all’integrità della loro umanità. Più avanti scopriremo che non risana al modo dei maghi della sua epoca ma, nel farlo, prendeva su di sé le loro infermità, caricandosi delle loro malattie (Mt 8,17), come il Servo del Signore di Isaia (53,4).

 

A chi accoglie il suo invito non promette nulla ma affida un compito, meglio una missione: “vi farò pescatori di uomini”. Non chiede di cambiare lavoro, ma di capovolgere la scala di valori sulla quale si basa il modo di operare del mondo dove grande è colui che è ricco, potente e forte… nel regno di Dio, grande sarà colui che si colloca all’ultimo gradino, disposto ad accogliere non ad escludere, a servire non a servirsi degli altri.

(BiGio)

                                                                                                                                                                   

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