L'umanità sono i doni dei maghi che la rappresentano
Matteo porta a compimento il suo Evangelo della nascita del Signore con l’Epifania, con la sua manifestazione del Dio-che-salva e che è il Dio-con-noi immerso nella nostra realtà fino alla fine dei giorni. Il disegno di questo evangelista è chiaro: Colui che nasce è annunciato innanzitutto non ai privilegiati, a coloro che lo attendevano in una delle forme da loro elaborate, ma agli emarginati, agli “scarti della società” come li chiama papa Francesco. Questi però dimostrano di saper cogliere nella normalità di una nascita le sue necessità e vi si fanno vicini portando quel poco che hanno a una coppia di neo genitori in difficoltà e l’augurio per una vita appena affacciatasi al mondo: sanno vedere “oltre”, senza fermarsi all’ovvio. È la logica del dono gratuito che non si aspetta nulla, è quel farsi prossimo che suscita, più che gioia, un essere lieti nel profondo del cuore che vi si trova coinvolto; letizia che è contagiosa e che è da custodire gelosamente nel proprio cuore come ha fatto Maria.
Oggi si fa memoria di tutto questo però allargando lo sguardo dalla grotta di Betlemme all’intero creato; dai pastori che “vegliavano” (l’intero Avvento ci ha chiesto quasi martellante questo atteggiamento!), agli stranieri, a tutti gli uomini del mondo seppur “infedeli”, i goyim da guardare con sospetto, rappresentati da quei maghi di altre religioni con le loro arti sconosciute dalle quali era necessario tenersi a debita distanza per non “contaminarsi”.
Eppure anche loro, come i pastori, sanno vedere quella “luce” che sfugge a coloro che appartengono all’élite gerosolomitana. Non è un caso che nella città quei maghi venuti da lontano non vedono la “luce”, la stella che non è certamente la cometa di Halley ma quella nuova vita appena affacciatasi alla nostra realtà. È necessario uscire dal pensare comune, dalla logica del mondo che con il suo potere politico e religioso tutto avvolge nelle nebbie delle tenebre. Solo allora si potrà vedere la “luce” di colui che dirà “Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita” (Gv 8,12). Quella luce che la Chiesa all’inizio della Grande Veglia Pasquale per tre volte a voce sempre più alta proclama invocandola: “La luce di Cristo, rendiamo grazie a Dio!”.
È una luce che discrimina, di fronte alla quale ci si divide: può disturbarci fino a sollecitarci nel cercare di spegnerla, oppure può guidarci nel cammino della nostra vita. Giovanni, nel primo capitolo del suo Evangelo, afferma che quella è “luce vera che illumina ogni uomo”, quella luce che “venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolta. A quanti però l’hanno accolta ha dato potere di diventare figli di Dio”. È quella “luce che splende nelle tenebre e le tenebre non l'hanno vinta”.
È l’intero mondo, l’intero creato che è coinvolto da questa nascita, da questa una nuova modalità nella quale il Signore si è fatto presente nella vita dell’uomo, nella storia.
Questa pagina di Matteo non è certo una narrazione storica ed allora ci si deve chiedere chi rappresentino i magi. Sono tutti coloro che non rimangono ripiegati su sé stessi, ma che sollevano alta la testa guardando oltre il proprio orizzonte, sono coloro che si lasciano interpellare da quanto accade e cercano di capire sapendo che non bastano “i segni dei tempi”, ma che questi vanno interpretati alla luce delle Scritture. Questo vuole dirci quel loro passare per Gerusalemme dove interpellano i saggi, gli esperti delle Scritture. È l’invito che ci viene rivolto a leggere le nostre vicende alla luce della Parola e così riuscire a discernere in queste la volontà del Padre separando le nebbie delle tenebre e vedere la sua luce.
Le tradizioni apocrife ci dicono che i magi sono tre: un giovane (Gaspare), un uomo maturo (Baldassarre) e un anziano di colore (Melchiorre). Rappresentano così l’intera umanità nelle sue diversità e le fasi di ogni vita, dicendoci e proponendoci di non smettere mai di cercare, di interpellarsi, di essere curiosi; affermano che non si devono temere i cambiamenti che è l’atteggiamento tipico di coloro che hanno qualche privilegio da difendere, che non agiscono per gli altri ma per sé stessi, vivendo così nella tristezza della propria ombra.
L’uscire da questo mondo, da questa modalità di vita apre la porta a una grande gioia, una “gioia immensa” perché il vivere nella luce è fonte di serenità e di letizia.
I magi portano dei doni: oro, incenso e mirra. La tradizione dei Padri ci invita a vedere nel primo il tributo che si deve a un sovrano; l’incenso raffigura il servizio sacerdotale, il culto gradito al Signore che è il servizio al fratello. La mirra può poi rappresentare la prefigurazione dell’unzione dei morti ma anche il balsamo dell’amore così come è cantato nel Cantico dei Cantici (1,13); in questa seconda immagine allora rappresenta il rapporto sponsale con un Dio che non è più giudice, ma sposo e sposa.
Personalmente piace leggere nei doni anche quello che siamo noi: nel pregiato oro la nostra umanità; nell’incenso quell’alito con il quale il Signore ci ha donato e ci dona la vita che è la nostra partecipazione alla sua divinità; nella mirra le asprezze e le difficoltà che il nostro vivere ci presenta quotidianamente.
È l’invito a presentare al Signore ciò che noi siamo, con i nostri pregi e i nostri difetti, le nostre capacità e le difficoltà che dobbiamo affrontare; è un affidare a lui tutto per riuscire realmente a sentirlo come il Dio-con-noi che ci sostiene nel nostro cammino al di là dei nostri meriti.
Quello che è importante, è poi quel tornare dei magi per un’altra via che indica una vita completamente nuova, trasformata dall’incontro con Cristo. Lo sia anche la nostra.
(BiGio)
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