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La Chiesa si interroga sulla teologia queer di Michela Murgia

Come i gatti sulla soglia. «Quando la porta è chiusa piangono perché venga aperta, quando la porta è aperta si mettono dall’altra parte e piangono per rientrare», raccontava Michela Murgia: «È una condizione di molti credenti, che dentro la Chiesa soffrono per angustia, per mancanza di respiro, spesso per un limite palese di adeguamento allo stare nel tempo presente... dall’altro lato quando stai fuori piangi perché la porta si riapra».


La scrittrice era ospite del pontificio ateneo Sant’Anselmo di Roma per un atto accademico in onore della teologa Marinella Perroni, l’amica che ha ispirato la scrittrice sarda a «perdonare alla Chiesa il fatto di non essere all’altezza della parola di Dio soprattutto in relazione alle donne», ha scritto la stessa Murgia anni dopo, sul numero speciale di Vanity fair che ha diretto poche settimane fa: «La Chiesa deve fare ancora passi da gigante ma io posso starci dentro e fare in modo che magari quei passi possano andare più veloci». La professoressa ora si schermisce: «Che responsabilità mi ha assegnato... quando ci incontravamo – racconta – parlavamo di fede e teologia, da donne, da femministe, da intelligenti, sentendoci dentro la Chiesa... semplicemente perché è casa nostra. Credo che questo atteggiamento per Michela fosse la possibilità di recuperare una Chiesa – non una fede! – con la quale sentiva a fatica di poter essere in comunione».

Si erano conosciute tredici anni fa in una sperduta parrocchia della Sardegna. Tennero una conferenza sull’opportunità di «risarcire» le donne nella Chiesa, il prete accennò una protesta dicendo che nella sua parrocchia le donne erano valorizzate. «Con perfetto tempismo un’anonima voce femminile si levò dalla platea e scandì seccamente questa memorabile chiosa: “Per pulire, don Marco!”»....

L'articolo di Iacopo Scaramuzzi continua a questo link:

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