«Dal luogo in cui abbiamo ragione, i fiori non spunteranno mai in primavera». A 24 anni dalla sua morte, i versi di Yehuda Amichai, uno dei padri della poesia israeliana, continuano a smascherare la falsa ragionevolezza della guerra.
Di quella guerra che ancora una volta dilania il Medio Oriente e delle altre 184 guerre in corso nel pianeta. Non a caso sono nati in Terra Santa, che della logica illogicità dello scontro a oltranza è emblema e profezia. L’ampia fascia di altipiani desertici e colline verdeggianti tra il Giordano e il mare è un concentrato di buone ragioni per far girare all’infinito la macchina del conflitto.
Ciascuno, essere umano, comunità o popolo, ha una sfilza di torti, abusi, vittime da rinfacciare all’altro. Ciascuno ha una motivazione valida per nutrire paura e sfiducia nei confronti del vicino. Ciascuno ha “parole buone” - esistenza, ritorno, resistenza, sicurezza, perfino fede - con cui giustificare la “necessità” di combatterlo. Peggio, di eliminarlo. Parole che governi e nazionali e internazionali, rilanciano, ammantandole di un’aura di ineluttabilità e sano realismo. Ne stiamo sentendo tante in questo tempo di normalizzazione della violenza bellica. La guerra come destino inevitabile, non come somma e conseguenza di deliberate scelte politiche, economiche e sociali. L’opzione unica che occulta la non volontà di costruirne altre. In un luogo simile – affollato di buone ragioni – non c’è posto per la vita, neanche quella di un fiore, scrive il poeta Amichai. La vita richiede spazio. Spazio in cui si insinui la storia dell’altro. In cui le sue altrettanto granitiche motivazioni aprano crepe nelle proprie....
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