Le parole, le immagini, le azioni e i concetti
di Andrea Grillo
in “Come se non” - http://www.cittadellaeditrice.com/munera/ - del 25 aprile 2021
La IV domenica di Pasqua è la domenica del “Buon Pastore”. L’immagine è potente, ma non è immediata. O meglio, proprio per la sua immediatezza elementare ha bisogno di aiuto e di guida, perché facilmente dice altro da sé. L’immagine è direttamente attribuita da Gesù a se stesso, come accade spesso nel Vangelo di Giovanni. Io sono – dice Gesù – il buon pastore; ma di sé dice anche di essere vite, pane, luce, via, verità, vita, porta: sono tutte parole che rimandano a immagini potenti. Non sono concetti. Però noi, per accedere alle immagini e alle parole abbiamo bisogno di concetti, che sono strumenti della intelligenza di ogni realtà, anche di quella di Cristo e della Chiesa. Vi sono qui due illusioni, che attraversano tutta la tradizione, fino a noi: che le immagini e le parole sia sufficienti, senza mediazioni concettuali; oppure che i concetti, ben collaudati, siano ottimi sostitutivi di tutto il resto. Né la prima, né la seconda sono buone soluzioni. Sia le parole/immagini, sia i concetti si deteriorano, se lasciati a se stessi. Perdono forza, si disperdono in via laterali, si svuotano e si corrompono.
La grande autodefinizione come “buon pastore” può svilupparsi, infatti, o nella sovrapposizione con le forme dignitose del ministero ecclesiale, o addirittura può diventare il “nome” di un Istituto di lefebvriani. La parola e la immagine sfuggono alla presa e generano altre cose. D’altra parte che cosa è accaduto della immagine di “re”, della “regalità”? Che cosa al “sacerdote”? Meno sfruttata la sorte dell’altra immagine odierna attribuita a Gesù: “pietra scartata/testata d’angolo”, anch’essa potentissima.
Vi è, però, un quarto livello della “tradizione”, che è la azione. Gesù non ci ha lasciato solo parole, immagini e concetti, ma ci ha lasciato azioni. Il suo “fare” ce lo consegna. E nel nostro fare lo ritroviamo, lo riconosciamo: Gesù si è fatto battezzare da Giovanni, camminava come pellegrino, pregava, interrogava, rispondeva con sapienza, insegnava, dormiva in barca, raccontava parabole, guariva, consolava, pranzava con i peggiori, lavava i piedi, si isolava, partecipava alle feste di nozze, scriveva col dito per terra. Tra tutte queste azioni, due sono diventate prioritarie, nell’incontro col Risorto. Il Gesù dopo la morte fa due cose: interpreta la Parola e spezza il pane. I due di Emmaus lo incontrano così. In entrambi i casi Gesù compie le due azioni: una prima volta anzitutto scalda il cuore con le scritture e poi si lascia riconoscere nello spezzare il pane. Una seconda volta, prima “mangia con loro” e poi spezza il pane della parola.
Queste azioni sono da aggiungere alle parole, alle immagini e ai concetti. Abbiamo così una tradizione che si orienta, nella storia, mettendo sempre in gioco questi 4 livelli di esperienza. Le sue parole, le immagini con cui si è o è stato interpretato, le azioni che ha compiuto e che ha affidato ai suoi, i concetti che hanno sintetizzato parole, immagini e azioni.
Le parole devono essere interpretate, le immagini spiegate, le azioni illuminate: per questo ci sono i concetti. Ma i concetti sono più poveri delle parole, benché più precisi, più stilizzati delle immagini, benché meno vaghi e più espliciti delle azioni, che hanno sempre una certa opacità, ma sono potenti.
La forza della tradizione sta nel mettere sempre insieme, nel “congiungere” questi quattro registri: così essa sa precisare le parole con le immagini, le immagini con le azioni, le azioni con i concetti, i concetti con le parole; ma, anche e viceversa, sa illuminare i concetti con le azioni, le azioni con le immagini, le immagini con le parole e le parole con i concetti.
Questa operazione complessa è “interna” alla tradizione: ogni tradizione lo fa. Anche una tradizione familiare mette in circolo questi 4 elementi. E’ umano fare così. Ed è anche divino.
Le distorsione accadono quando si separano tra loro questi livelli. Quando si pretende, o si presume, che l’ordine concettuale comandi gli altri tre, oppure l’ordine normativo delle azioni, o l’ordine affettivo delle immagini, o l’ordine espressivo delle parole.
Il Buon Pastore “dà la vita per le sue pecore”. Non c’è nulla di “dolciastro” in un questa frase, che è una straordinaria definizione del crocifisso risorto “sub specie pastoris”. Di fronte a questo, non vivendo noi scissi, dovremmo dire: che cosa ha da dirci questa logica se la applichiamo al 25 aprile? Quali sono le parole, quali le immagini, quali i concetti e quali le azioni di questa tradizione a cui non rinunciamo? Come possiamo celebrare la “liberazione” – che è fine della guerra e fine della dittatura autoritaria, che è “liberarsi” ed “essere liberati” – se permettiamo, alla vigilia, il grave fatto per cui 130 africani in fuga muoiano inascoltati anche dalla nostra guardia costiera? Che cosa facciamo della libertà per cui hanno dato la vita tanti uomini e tante donne? Ci sono azioni che qualificano una memoria. Nessuna ragione politica, strategica, nessun patto o convenzione può giustificare di aver lasciato morire i naufraghi e di celebrare oggi la nostra “festa nazionale” come una “routine”.
C’è una scena, alla fine del film “Salvate il Soldato Ryan”, che è molto toccante. Il protagonista Ryan ritorna, ormai molto anziano, in quel nord della Francia dove 7 uomini, 60 anni prima, hanno “dato la vita” perché lui si salvasse. E sulle loro tombe Ryan piange e si volta verso i suoi familiari che lo hanno accompagnato e chiede: “ditemi che ho vissuto bene!” Solo vivendo bene si può rimanere all’altezza del dono ricevuto. Dare la vita per gli altri è il “concetto”, la “parola”, la “immagine” e l’”azione” di cui si fa memoria. Anche il 25 aprile vive della stessa coerenza di parole, immagini, azioni e concetti. La retorica delle parole può dimenticarlo, i concetti possono confondersi, le immagini possono distrarre, ma l’azione, quella azione, si pianta nella carne. Se anziché “dare la vita”, preferisci lasciar morire in mare 130 uomini, donne e bambini, diventi sordo e muto di fronte alla loro domanda, allora della festa del 25 aprile non hai più né le parole, né le immagini, né i concetti, né le azioni. Non appartieni più alla tradizione della libertà donata e ricevuta, ma ti illudi che la libertà – la tua libertà – sia dovuta e senza prezzo. Così non capisci più che senza la giusta libertà di tutti e senza la vigile sollecitudine per chi “libertà va cercando”, non c’è vera libertà né festa della liberazione possibile.
Al buon pastore, nel Vangelo di oggi, sono contrapposti i mercenari. Che non hanno feste delle liberazione, perché vivono della schiavitù degli altri. La tradizione italiana, se ha una vera dignità, sa da che parte stare, sa a quali parole, a quali immagini, a quali azioni e a quali concetti affidarsi. E sa che senza l’azione buona, senza il vivere bene che è cura e dedizione per gli altri e per gli ultimi, ogni festa della liberazione, e ogni domenica del Buon Pastore, diventano una ipocrisia e generano mostri.
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